Uniti nella Speranza

Coraggio, non abbiate paura (Mt 14,27)

Mons. Angiuli: “Consolazione, trasformazione, rinnovamento”

Mons. Angiuli: “Consolazione, trasformazione, rinnovamento”

Cari fratelli e sorelle, c’è una sorta di scambio: la pandemia da coronavirus può aiutarci a comprendere meglio il valore del tempo di avvento e, viceversa, il tempo di avvento può aiutarci a vivere meglio le difficoltà connesse con il Covid-19.
L’avvento, infatti, è caratterizzato dalla parola aramaica: Maranatha! Tradotta in italiano, essa può indicare la fede nella certezza della venuta del Signore (Il Signore viene!) oppure esprimere un’invocazione affinché egli venga (Vieni, Signore!). Maranatha è, nello stesso tempo, un «grido pieno di fiducia e di speranza»1. Sappiamo che Cristo viene e desideriamo che egli venga. In questo secondo significato è riportata dall’apostolo Paolo (cfr. 1Cor 16,22) e dall’Apocalisse (Ap 22,20), inserita sempre alla fine del testo come invocazione conclusiva. Nell’Apocalisse è addirittura l’invocazione conclusiva quasi a rappresentare il lascito e l’imperativo che deve caratterizzare la vita cristiana. Il messaggio proposto dalle tre figure che dominano la liturgia odierna (il profeta Isaia, l’apostolo Pietro e il messaggero Giovanni Battista) si può sintetizzare in tre parole: consolazione, trasformazione, rinnovamento.
La prima lettura, tratta dal Deutero-Isaia, chiamato anche il “libro della consolazione”, focalizza il primo aspetto. Al popolo in esilio, deportato dalla sua terra e afflitto da ogni sorta di amarezza, incline alla disperazione e all’angoscia, soggiogato da un altro popolo e senza la speranza di tornare a rivedere Gerusalemme, la città santa, il profeta annuncia la venuta del Dio consolatore. Il versetto iniziale è come un ritornello di una canzone che invita a non aver paura e a riprendere fiducia: «Consolate, consolate il mio popolo. Parlate al cuore di Gerusalemme e gridatele che è finita la sua tribolazione» (Is 40,1).
Non si tratta di un miraggio, ma di una realtà. Il triplice “ecco” del brano del profeta Isaia è un invito a non rassegnarsi, ma a guardare a quanto sta accadendo. Il profeta esorta ad aprire gli occhi e a vedere l’intervento salvifico operato dal Signore. Certo, la situazione è complicata e difficile, ma se si scruta l’orizzonte con attenzione, si scorge il Dio che viene. Egli porta con sé il premio, la potenza, il trofeo, il cambiamento delle situazioni.
Analogo è il messaggio di Giovanni Battista. Ecco, – egli afferma – sta per venire una persona che è più grande di me. Io non posso nemmeno sciogliere i legacci dei suoi sandali (cfr. Mc 1,7). “Sciogliere il legaccio dei sandali” è un’espressione strana e da non intendere come un atto di umiltà, ma come un simbolo antico difficile da comprende perché era fuori uso già ai tempi di Gesù. L’espressione era usata come una specie di proverbio. Per una chiarificazione bisogna leggere il capitolo quarto del libro di Rut, dove si racconta una storia di diritto matrimoniale. Secondo le antiche abitudini i matrimoni avvenivano nell’ambito di famiglie tra loro già imparentate e, come per i campi, c’erano dei diritti di prelazione anche per le donne. Non si poteva sposare una donna se c’era qualche altro che ne aveva più diritto, una sorta di precedenza. Se questi rinunciava a tale diritto, si toglieva in pubblico il sandalo e lo consegnava all’altro. Questa consegna simboleggiava la rinuncia al proprio diritto e il passaggio di questo ad altra persona. Giovanni Battista adopera questa espressione proverbiale per dire che dopo di lui viene quello più forte, colui che ha più diritto. Gli lascio il posto perché il posto è suo! Questa precisazione è importante perché richiama l’uso antico dell’espressione in riferimento alla dimensione nuziale. In altri termini, riporta l’attenzione sul fatto che Gesù è lo sposo. Giovanni, invece, è l’amico dello sposo come attesta l’evangelista Giovanni. Lo Sposo è il Dio che viene a portare la consolazione e assumere su di sé il dolore, la tristezza, la difficoltà del popolo.
L’avvento è il tempo che annuncia la venuta del Dio consolatore. Certo, ci sono le amarezze, le difficoltà, gli insuccessi. Viviamo in un tempo in cui ci sarebbe molto da lamentarsi. Ma è in mezzo a noi, c’è il consolatore. Consolare non è simulare, fare finta di niente. Ma è sollevare, liberare sostenere con dolcezza e pazienza. E Dio lo fa come un pastore, come colui che porta gli agnellini sul petto, dolcemente, con cura. Lo fa parlando al cuore di Gerusalemme, cioè al nostro cuore (cfr. Is 40,11).
Il Dio consolatore è anche il Dio che rinnova radicalmente il nostro tempo e la nostra vita. Viene «come un ladro» (2Pt 3, 10), realizza il suo disegno senza agitazione, con magnanimità, come fuoco e innovatore. Quando Dio arriva, il tempo dell’uomo cambia. La vita è abitata dalla pienezza di Dio. Egli riempie il vuoto dei giorni dell’uomo. Si passa dal tempo vuoto al tempo pieno. Mille anni sono come un giorno e un giorno come mille anni. Il frammento diventa come se fosse un’esperienza lunga e inesauribile: un’esperienza di eternità. Si passa dal tempo agitato al tempo lento. Noi ci agitiamo, Dio invece cammina con passi pacati. Dio è paziente e ha pazienza con noi. Quando egli viene anche la nostra impazienza e agitazione, dovrebbe tramutarsi in calma e quiete.
Dio viene, viene con magnanimità. Il suo non è il tempo del rancore, del conflitto, della contesa. Lo sguardo magnanime non vuol dire che non vi sono le difficoltà, ma significa allargare il cuore e non perdersi a calcolare le minuzie, le piccinerie e le sciocchezze. Un cuore magnanime non si disperde nelle piccole cose, ma guarda con superiorità e larghezza. Quando Dio viene, consuma le nostre fragilità. Cadono tutte le scorie, le inutilità e superficialità. I cieli si dissolvono, vengono incendiati e si fondono. E rimane quello che è giusto che rimanga. Dio viene non solo per fondere, incendiare, bruciare, ma soprattutto per far nascere cieli e terra nuova. Il tempo vecchio cede il posto al tempo nuovo.
L’avanzamento di Dio deve provocare un rinnovamento da parte dell’uomo. In attesa della sua venuta, bisogna cercare di essere «senza macchia, irreprensibili davanti a Dio e in pace» (2Pt 3, 14), preparare la via del Signore, raddrizzare i suoi sentieri (cfr. Is, 40; Mc 1,3)