La sfida della libertà sta tutta davanti a noi. La libertà è dono e compito, è origine e destino, è un essere nati e un essere mortali. Solo in questa tensione vitale, la libertà fa storia, crea cammino, si apre al futuro. Il futuro fa paura, quando la libertà è minacciata, suscita energia quando la libertà è generativa. Il Novecento è stato il secolo che si è focalizzato più sulla morte che sulla nascita, ha enfatizzato l’essere-per-la-morte piuttosto che l’essere-per-la-nascita. L’inverno demografico è l’esito preoccupante, nella vita personale, familiare e sociale, dell’accento posto sulla mortalità e fragilità dell’uomo, sulla sua finitezza e vulnerabilità. Esso ha creato prima un atteggiamento prometeico e progressista e poi un clima depressivo e angosciato. Anzi ha inoculato la paura per il futuro che viene ritenuto incerto e minaccioso. La libertà è un andare nascendo. Molti autori hanno riflettuto sulla nascita come una vera tragedia esistenziale («Maledetto il giorno in cui sono nato…!») e su tutti ha fatto da maestro Heidegger che ha incentrato sull’essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode) la condizione dell’Esserci (Dasein) nel mondo. Nella seconda metà del Novecento, però, soprattutto il pensiero femminile (Hannah Arendt e Maria Zambrano), seguito da Michel Henry e dai fenomenologi francesi di fine Novecento, ha portato in modo acuto l’attenzione sull’essere-per-la-nascita quale cifra per descrivere la parabola della libertà. Anche Guardini e il filosofo tedesco Peter Sloterdijk hanno portato l’attenzione sulla filosofia della nascita. Forse la perdita della dottrina della creazione o, almeno, la sua riduzione al problema delle origini, ha eluso il tema della nascita e della rinascita, come filo rosso dell’esistenza dell’uomo, come atto che dà origine e inaugura la storia dell’uomo. Si è ridotta la nascita all’inizio della vita, non all’origine che genera sempre da capo l’umano dell’uomo e della donna, che lo rende sempre un essere-per-la-nascita. L’origine non sta all’inizio, ma è al cuore del vivente umano, della nostra vita nel mondo, è il dono che continuamente genera e fa risorgere la vita. Siamo fatti per la vita e non per la morte, e se siamo mortali e limitati, la nostra finitudine è (e dev’essere) un dono che sprigiona la vita. L’essere-per-la-nascita è un essere-per-la-vita e il nostro essere mortali non può significare che con la morte finisce tutto. La finitezza è un dono da custodire nell’apertura all’altro, al mondo, alla società, al futuro e a Dio. Dio ci dona la vita senza pentimento, non per farla morire, per farla iniziare sempre da capo, anzi per farla risorgere. La libertà è un andare nascendo! Concentrare la nostra attenzione e riflessione, ma soprattutto coltivare un sentimento della vita incentrato sul dono della nascita suscita subito due obiezioni. La prima: partire dall’evento della nascita ci farebbe scadere nel biografismo, cioè si riferirebbe a un’esperienza così singolare che non è proponibile e universalizzabile per tutti. La seconda: il terreno della nascita è oggi sotto la lente di ingrandimento della riflessione bioetica e quindi è un argomento di frontiera tra filosofia (e teologia) e scienza, ma non è fruibile come argomento che riguarda il senso e le forme pratiche del vivere. La prima obiezione è decisiva, ma può avere una risposta che chiede un cambio di paradigma: la riflessione sul dono della nascita non è solo una cosa che riguarda gli affetti famigliari e l’origine personale, ma il tema della generazione è la correzione radicale di una prospettiva incentrata sul soggetto, che sembra “gettato-nel- mondo” e pare senza inizio. È un soggetto assoluto (ab-soluto), cioè sciolto da ogni origine concreta “senza padre, madre e genealogia”, un soggetto terribilmente individualista. L’individualismo moderno ha all’origine una prospettava antropocentrica, ma con un punto di partenza incentrato sul soggetto conoscente, senza mondo, senza alcun debito al dono della sua generazione (al mondo, alla lingua, alla cultura ecc.). La seconda obiezione, che riduce la riflessione sulla nascita solo al dibattito bioetico, riguarda solo il significato e il valore della vita umana nascente, sotto il profilo dei diritti (o meno) che possono esserle riconosciuti. L’approccio bioetico, sia in senso generale (l’etica della vita), sia in senso speciale (aborto e fecondazione artificiale), sia in senso clinico (casi dell’intervento medico) non si occupa del senso dell’evento-nascita. Tuttavia, l’esperienza della nascita è per tutti l’esperienza dell’accesso all’umano.
- Dimensioni dell’essere-per-la-nascita
Siccome la (propria) nascita è inaccessibile, sembra facile concludere che è anche impensabile. Noi, infatti, ci consideriamo “mortali”, più che “natali”: è la paura della morte a guidare la riflessione, più che la meraviglia della nascita. Ma quali sarebbero i momenti decisivi di un pensiero della nascita?
– La dimensione singolare della nascita. Un pensiero che sposta il suo baricentro dalla morte alla nascita smaschera la paura della morte di fronte a un pensiero onnicomprensivo, dove il singolare viene inglobato nel tutto. Pensare la nascita significa mettersi non solo nel ciclo organico della procreazione, ma nella dimensione relazionale della generazione. Il legame dei genitori col figlio comporta che il dare la vita sia una “chiamata per nome” e un’“appartenenza specifica” col cognome (paterno e materno). La singolarità del vivente viene dal dare la vita e dall’appartenere a una storia con i suoi tratti culturali (lingua, cultura, istituzioni). Il figlio è quindi “riconosciuto” con il suo nome e cognome nella sua unicità irripetibile, non intercambiabile. Si veda il caso dei figli non riconosciuti, che sono solo messi al mondo, ma non sono (ancora) entrati in un processo generativo. Generazione e filiazione inaugurano, dunque, il percorso con cui un vivente umano viene riconosciuto nella sua irripetibile singolarità (anche in presenza di altri fratelli), che ci fa una realtà senza prezzo, anzi fuori commercio, perché – dice Ricoeur – quando «sono stato riconosciuto figlio o figlia, mi riconosco come tale e, a questo titolo, io sono questo inestimabile soggetto di trasmissione». Questa è la meraviglia della nascita, questo è il dono dell’essere (stati) figli.
– La dimensione relazionale della nascita. Con lo spostamento dell’accento sulla nascita si vince la logica individualistica e solipsistica dell’Io per accedere alla dimensione fondativa dell’umano in una relazione dialogica. Nella nascita il vivente singolare non si mette al mondo da solo, ma viene “messo al mondo” da altri. Si viene alla vita e si entra in una relazione costitutiva che prima di tutto dev’essere narrata nella sua concretezza. Non siamo noi che nasciamo, ma siamo “fatti nascere” nella generazione. Il tempo e il nome della nascita è il nostro codice di identità nella relazione all’altro generante: in prima battuta la madre, poi, col suo racconto, il padre che può essere persino occultato e travisato. Lo sviluppo dell’Io del bambino, e della coscienza dell’Io, avviene nel rapporto con il tu: il parto dell’Io, il suo nascere, avviene da una separazione dal tu della madre, che lo fa passare dallo stato fetale allo stato natale. Si nasce ponendo una differenza, che viene poi reduplicata dalla differenziazione posta dal padre rispetto anche alla madre simbiotica. Solo scoprendo la dimensione del tu, l’Io si identifica e si costruisce: il legame fetale è simbiotico (e può sopravvivere nel legame fusionale del figlio con la madre), il legame natale è dialogale e ha bisogno del sorriso che suscita meraviglia e della parola che chiama per nome. Il primo è un legame organico, il secondo è un legame spirituale, anzi è un legame che ci genera come spirito nel mondo. Il legame Io-Tu della madre, si apre all’Io-Altro del padre, nel terreno di coltura dell’Io-Esso del mondo (naturale e culturale). La regressione al legame naturale è patologica, se non si avventura nel legame culturale che è invece fisiologico, non tanto per lo sviluppo organico, ma per la crescita spirituale del cucciolo d’uomo.
– La dimensione femminile della nascita. Il nascere è sempre in prima battuta un nascere dalla madre, da una donna. L’uscita dal grembo materno e il venire al mondo ci fa venire alla luce. La nascita è intreccio di femminile e maschile, introduce una filosofia di genere. Cancellando la nascita, il pensiero occidentale si è messo nella situazione di pensare un Io asessuato. Soprattutto ha spento la potenza del femminile, legato alla generazione dei corpi, quasi riducendosi alla generazione delle anime, legate all’intuizione delle idee, totalmente nelle mani del filosofo, quasi soltanto maschio. Una filosofia della nascita è un pensiero della maternità, che non è solo biologica, ma anche simbolica. Il corpo della madre si dilata, non è più a piena disposizione della donna, diventa esperienza di un corpo di carne diverso, presenza nella (propria) carne di un “altro”, spazio che si dilata per farsi accogliente e ricettivo, che comincia rispondere, a scegliere gli odori e i sapori. Anche il tatto si dilata e l’io della donna produce una sorta di potenziamento dei sensi fino a diventare capace di ascoltare l’altro che è in sé, in un processo di dilatazione, adattamento, cambiamento: una postura che non è mai indolore, ma rende vulnerabile la vita della madre che accoglie e fa spazio all’altro da sé. La maternità è quindi esperienza della metamorfosi e del rinnovamento che è insieme dolore e piacere, beatitudine. Essere madre è sempre “lasciar essere” la vita, ma questo non avviene naturalmente, ma al prezzo del lasciar respirare la vita dell’altro che è in noi, perché uscendo da noi respiri per sé stesso. La dilatazione corporea è simbolica dell’accoglienza culturale dell’altro, perché sia custodito come altro. L’accogliere materno è sempre un preservare l’alterità dell’altro che è sbocciato in lei e deve crescere fuori di lei.
– La dimensione dolorosa della nascita. Da qui sorge la dimensione dolorosa, anzi agonica della nascita. Grazie alla nascita e alla maternità-paternità che la rende possibile, l’Io si decentra, non si coglie come autosufficiente e sovrano, ma in prima battuta come dipendente. L’io non è auto-fondato e auto-nomo, ma indifeso, affidato al più forte, alla madre (e al padre), dove però il debole ha il potere di comandare al più forte. La crescita allora si sperimenta come un diventare indipendente. Se diventare adulto vuol dire gradualmente rendersi autonomo e autosufficiente, ciò non avverrà che mutando la relazione di dipendenza in una relazione dialogica. Il figlio diventato adulto resta figlio, non rompe la relazione d’origine, né la inverte solo in una relazione di distacco, ma la vive come una relazione circolare, che si tiene alla giusta distanza, per diventare ed essere adulti, senza smettere di essere figli nella riconoscenza e nella gratitudine dell’origine. La relazione all’altro (della madre e del padre) è costitutiva della relazione a sé e della (buona) coscienza di sé: il legame di dipendenza, se vissuto come un legame di amore che dà e riceve, si trascrive come legame buono e creativo nei confronti dell’altro. La nascita e il parto sono eventi dolorosi, generano le “doglie del parto”, che nella dimensione organica della nascita sono oggi anestetizzate, ma non possono essere cancellate nella dimensione umana della generazione. Questo distaccoseparazione della e nella nascita sono anticipazioni degli ulteriori distacchi-separazioni: quello psichico (nell’adolescenza) e quello decisionale (nella scelta di vita o vocazione). Pertanto la dimensione luminosa del venire al mondo come un “venire alla luce” si coniuga sovente con la dimensione tragica del nascere, come un “cercare la luce”: «Sono venuto al mondo con una bella ferita; è stato tutto il mio corredo» (F. Kafka). Il dolore è la condizione interna del nascere e della vita come continua rinascita, la beatitudine nel cammino terreno è l’anticipo della chiamata alla vita per cui si è nati. «Nascere, venire al mondo – dice Natoli –, vuol dire avere dinanzi a sé il mondo come uno spazio di possibilità, andare per il mondo». La libertà è un andare nascendo e crescere è un nascere alla vita del mondo.
– La dimensione drammatica della nascita. Infine, un pensiero della nascita è uno sguardo sulla vita dove la libertà si mette in gioco in un dráma, cioè in un agire che anticipa nelle esperienze finite il senso buono della vita, che è stato trasmesso e ricevuto nei legami della generazione. I legami da cui siamo (stati) costituiti con la madre, il padre e i fratelli, sono la grammatica per l’agire con gli altri e per la nostra presenza nel mondo. Più noi accogliamo questi legami, li conosciamo e li purifichiamo nell’esperienza agonistica (e talvolta agonica) dell’essere (stati) generati, più noi siamo in grado di decidere, amare e sperare. Diventare adulti è la stella polare della generazione. Non è solo emanciparsi dalla tradizione dei padri con un atto trasgressivo che la rifiuta o persino la combatte (progressismo), oppure con un gesto che la perpetua idolatrandola (conservatorismo), ma la vera liberazione è un ereditare dai padri e dalle madri il fuoco che ci hanno trasmesso, rinnovandolo sotto la cenere con cui talvolta si trasmette. «Ciò che hai ereditato dai padri, riconquistalo se vuoi possederlo davvero!» (Goethe). Il nostro modo di “riconquistare” l’eredità dei padri, di accedere al nostro essere nati, è di vivere il legame con l’origine come un debito grato, di cui non verremo mai a capo con il nostro (buon) agire; il nostro modo di “possedere” l’eredità non è quella del possesso vorace ed egoistico, ma del dono condiviso e fatto circolare. Il Concilio di Trento a proposito del rapporto tra la grazia del dono e il merito dell’uomo ha scritto: «Dio ha voluto che fossero nostri meriti quelli che sono i suoi doni». C’è ancora un piccolo tocco nominalistico in quel “Dio ha voluto…”, rispetto alla formulazione: “Dio ha reso possibile…». Il dono di Dio rende possibile l’opera (libera) dell’uomo! Il dono della nascita rende possibile l’essere stesso della libertà dell’uomo e della donna, anzi rende capaci l’uomo e la donna di essere come libertà. La libertà è un andare nascendo!
- La scena originaria della nascita
Per ritrovare un’icona della libertà come un andare nascendo, basterebbe commentare i testi del battesimo di Gesù. Il battesimo è la nascita, in cui il nostro “venire alla luce” trova “una luce per vivere”!