Carissimi, parto da una citazione insolita, ma che esprime bene il pericolo di perdere la speranza e perciò anche la vera urgenza di recuperarla, soprattutto oggi, mentre imperversa la pandemia.
Nel film La storia infinita mi colpiscono le battute di un dialogo tra due esseri che stanno l’uno di
fronte all’altro: la creatura oscura, lupo mannaro, Gmork ed Atreyu, eroe positivo:
“Atreyu: Perché Fantasia muore?
Gmork: Perché la gente ha rinunciato a sperare. E dimentica i propri sogni. Così il Nulla dilaga.
Atreyu: Che cos’è questo Nulla?!
Gmork: È il vuoto che ci circonda. È la disperazione che distrugge il mondo, e io ho fatto in modo di aiutarlo.
Atreyu: Ma perché?!
Gmork: Perché è più facile dominare chi non crede in niente. Ed è questo il modo più sicuro di conquistare il potere.”
Lo scenario che abbiamo oggi davanti agli occhi è piuttosto oscuro. La morte e la violenza la fanno un
po’ da padroni. Abbiamo accumulato negli anni una saccenteria nei confronti della vita che ci ha fatto
sfiorare l’idea di procurarci l’immortalità. Tutti più giovani, più belli, più sani. Pubblicità fantasmagoriche sui rimedi all’età che avanza, sull’ipotesi di corpi perfetti e sempre tonici, su farmaci miracolosi.
E poi … quel minuscolo, quasi invisibile virus, ha messo in ginocchio l’onnipotenza del mondo, in particolar modo quello capitalistico, pronto al consumo di ogni cosa, riportandoci alle più crude delle
realtà: la vita è un dono assolutamente non manipolabile, la vita non è nelle nostre mani.
E questo dono, dice Dio, te lo regalo, perché tu lo custodisca, lo faccia fruttare, lo renda ancora più
bello: ma guai a te se ne vuoi mangiare, cioè se pensi che sia soltanto merito tuo e lo vuoi possedere.
Ecco dove il possesso ci ha condotti: ad una terra impazzita nei suoi mutevoli cambiamenti, ad
un clima carico di nemici invisibili per la salute di ciascuno e soprattutto dei più deboli, ad un’economia
totalmente sproporzionata a vantaggio dei più forti, al dolore cieco e impotente di tante madri che piangono i loro figli e tanti figli che piangono i loro cari senza nemmeno poterli accompagnare nell’ultimo viaggio. Uomini e donne che in nome di un credo religioso che predica l’amore quale il
nostro, finiscono con l’uccidere per un malinteso senso dell’offesa, disordini sociali che vedono nascosti,
in alcune frange, ben altri obiettivi che la giustizia e il ripristino di regole certe.
La realtà urla da tutte le parti la sua precarietà, la sua durezza, la sua latente o a volte dichiarata
incomprensibilità. Di fronte all’impotenza che ne deriva, di fronte all’evidenza che i migliori sforzi in alcuni momenti non portino a niente, cosa può fare l’uomo, cosa può fare ciascuno di noi? Riscoprire di che cosa e per che cosa il nostro cuore è fatto.
Il nostro cuore è attesa e domanda; attesa di qualcuno che ci voglia veramente bene, domanda di essere amato. «Ogni uomo nasce con un cuore che attende la felicità, ma se la felicità non ha volto, dopo un po’ l’uomo si accontenta dei piaceri parziali che incontra nella vita» (Don Giacomo Tantardini).
Ecco allora l’intenso periodo che la Chiesa si appresta a vivere con l’Avvento ed il Natale. L’Avvento, a breve, verrà a ricordarci il senso dell’attesa, dell’attesa di trovare ciò che corrisponde al desiderio del cuore: la felicità di essere totalmente voluti bene. Questa è la potenza della dissimmetria dell’attesa, che vive nel campo comune del desiderio e, come tale, rischia di essere sempre insoddisfatta, se non si ha la capacità di cogliere lo sguardo di Gesù. Ce lo ha ricordato un grande filosofo del Novecento, L. Wittgestein, quando scriveva, nelle sue Ricerche Filosofiche che «Noi aspettiamo questo e siamo sorpresi da quello». C’è una consapevolezza dell’attesa che gioca su una sincronia di significato con la sorpresa.
Ecco cosa è davvero l’Avvento, la sorpresa di un’attesa, che è sempre qualcosa di ontologicamente diverso da ciò che pensiamo, ma non per questo meno desiderato. La sorpresa ha il compito di mettere in discussione ciò che conosciamo, mutuando il nostro corredo di abitudini dalla meraviglia di qualcosa che è pensiero ma non ancora verità. Per questo la nascita di Gesù è sempre un nuovo Avvento, una nuova sorpresa, una nuova attesa, una nuova vita.
La nascita di Gesù, intesa come la sorpresa dell’attesa, è un riposo, un abbandono alla Verità che è Verità in Cristo e che, come tale, si vive con l’intimo dovere di onorarla, di “attendere per attendere” come, saggiamente, ci ha insegnato Martin Heidegger, dal quale apprendiamo anche che «l’attesa è il nostro rapporto con ciò che ci viene incontro e attendere significa lasciarsi andare verso ciò che ci viene incontro».
In questa direzione l’attesa è rivoluzionaria, ribelle, pronta a sfaldare l’esigenza di conservare, in favore di un lasciarsi attraversare da ciò che non conosciamo, quello che A. Rimbaud chiamava “l’inconnu”, lo sconosciuto. La grandezza di Dio sta nella capacità di essere qualcosa di sempre nuovo seppure conosciuto. Questo è il salto nella verità che siamo chiamati a compiere, perché l’Avvento non si riduca alla banalità di luci accese e sorrisi spenti, ma sia una reincarnazione vera dell’anima con carne che si rianima, proprio come la carne di Maria alla notizia dell’Avvento di suo Figlio, la nascita della trascendenza dal corpo, perché, Gesù, è stato uomo, volto e carne. La prima vera attesa si compie, dunque, nel corpo di Maria, nel momento in cui l’eidos si è fatto sostanza.
Perché, allora, alzare gli occhi al Signore? Perché ci ha amati, di un amore unico, totale, vero. Ed io che sono niente (posso ancora negarlo dopo tutti questi mesi di angoscia, di paura, di smarrimento?), voglio domandare tutto a Lui.
L’Avvento è il tempo dell’umiltà, del riconoscere di essere totalmente abbandonati nelle mani di un
Altro e di essere peccatori cioè poveri, mancanti di tutto.
“L’umiltà è come una bilancia: più ci si abbassa da una parte, più ci si innalza dall’altra”, diceva San Giovanni Maria Vianney, il santo curato d’Ars. Gesù non è una risposta teorica a questa urgenza del cuore, è un fatto, è l’urgenza stessa! Il Dio che si fa carne è un fatto che irrompe nella storia e costituisce quell’attrattiva per cui, da più di duemila anni, uomini e donne si pongono sul suo cammino costituendo un popolo vivo che testimonia la solidarietà, la fraternità, l’abbraccio e il perdono.
Gesù che viene è un volto, uno sguardo, una parola … la sorpresa. Gesù, il Dio fatto Uomo, viene per te, a piangere con te, a soffrire con te, a sorridere con te. Non ti lascia solo, come i sapientoni sproloquianti di
questo tempo vogliono farti credere. Gesù risponde al tuo bisogno di luce, di bellezza, di tenerezza.
Un bambino, soltanto un bambino, che viene per la salvezza del mondo intero.