Cari fratelli e sorelle, oggi ha inizio un nuovo anno. I giorni tra la fine e l’inizio dell’anno sono un tempo sospeso. Ritorna puntualmente il rito dei bilanci e delle previsioni. Si volge lo sguardo al passato e si puntano gli occhi all’orizzonte. Si cerca di interpretare quanto è accaduto e si tenta di prevedere ciò che avverrà. Si richiamano gli avvenimenti più salienti dell’anno passato e ci si avventura nel formulare possibili pronostici per il futuro.
Il 2020, l’annus horribilis
Il 2020 chiude la seconda decade del terzo Millennio. Questo ventennio è stato attraversato da tre crisi: l’abbattimento delle torri gemelle, la bolla immobiliare e la crisi economico-finanziaria dei mutui subprime e la pandemia da coronavirus. Nonostante la giocosa modalità chiamare l’anno che è trascorso non duemilaventi, ma venti/venti per via del numero venti ripetuto due volte, passerà alla storia come l’annus horribilis, l’anno della Grande Paura sempre in biblico tra ripresa e ricaduta nel coronavirus. Un anno vissuto sul filo del rasoio, del pericolo incombente, del dramma umanitario. Un anno al quale si sono affibbiati gli aggettivi più negativi: difficile, complicato, problematico, tormentato, terribile, tremendo, devastante, straziante. Secondo un commentatore, il 2020 è stato «l’anno più pesante e drammatico che le generazioni post-belliche ricordino»; secondo un altro sociologo, «l’anno più triste dalla fine della seconda guerra mondiale (se non dall’Unità d’Italia)».
La pandemia ha provocato tre effetti negativi: la morte di un gran numero di persone, la parziale paralisi della vita sociale ed economica e il problematico andamento dell’azione educativa e formativa delle nuove generazioni. Per questi motivi, molti ritengono che sia “un anno da dimenticare”. In forme diverse, talvolta anche al di sopra delle righe, non poche persone sono desiderosi di voltare pagina per lasciarsi alle spalle il recente passato e spingersi a guardare avanti nella speranza che il futuro sia migliore, anche perché convinti che “peggio di così non potrà andare”. Serpeggia un forte desiderio di archiviare frettolosamente il tempo trascorso che ci ha recato dolore, solitudine e ansia. Si spera che con il vaccino si possa controllare l’epidemia, dando nuovo vigore alla ripresa economica e assicurando il ritorno al ritmo normale dell’azione formativa ed educativa per i ragazzi e i giovani. Ci si augura che gli Stati, e in modo particolare l’Italia, sappiano cogliere l’opportunità del Recovery Plan programmato dall’Europa con una mastodontica cifra mai stanziata per la ripresa socio-economica.
Credo che sarebbe più opportuno non dimenticare. Se mai dovremmo tenere bene a mente quanto è accaduto, magari fin nei più piccoli particolari per imparare una lezione di vita, un insegnamento “in presenza” come si usa dire quando si parla della scuola. Abbiamo vissuto avvenimenti che hanno toccato la nostra sensibilità, la nostra emozione, la nostra carne viva. Abbiamo dovuto guardare ciò che non avremmo voluto vedere. Abbiamo avvertito sulla nostra pelle ferite che non è facile rimarginare. Di fronte ad esse, sarebbe bene non immunizzarci, ma avere l’umiltà di comprendere le cause che le hanno provocato e i rimedi per cicatrizzarle con gli antidoti giusti e nei modi più opportuni, facendo affidamento alla virtù della speranza e della resilienza per lasciare il tono triste e lamentoso e rafforzare lo spirito di chi si prepara a ripartire, con rinnovato ardore e passione. Dovremmo fare tesoro della lezione appresa e considerare con attenzione non solo i limiti, ma anche i punti di appoggio su cui far leva per raggiungere nuovi obiettivi.
Le crepe provocate dal coronavirus
Il coronavirus ha aperte alcune crepe nel tessuto sociale, economico e spirituale dell’umanità che bisogna sanare. Nessuno si augura che i muri di casa siano attraversati da crepe di cui non si conosce l’entità e la pericolosità del danno. Esse sono il sintomo di una situazione problematica che non bisognerebbe ignorare, anche se non è necessariamente sono segno di pericolo.
I casi più frequenti di crepe riguardano proprio la presenza di lunghe e superficiali fessure che corrono da una parte all’altra della stanza. In questo caso si parla di crepe diagonali nei muri. Il più delle volte si tratta di un cedimento dell’intonaco, una perdita o un’infiltrazione di acqua o di umidità che tende a estendersi velocemente con successive complicazioni. Potrebbe trattarsi solo un movimento di assestamento o un eventuale dissesto in fase iniziale che può essere facilmente monitorato e nel caso “sanato” prima che determini danni più seri e interventi di ripristino più onerosi. Fessure, intonaco sgretolato o porte e finestre che all’improvviso non si chiudono bene non sono sicuramente segni positivi, ma non sempre l’intervento da eseguire è così importante come sembra all’apparenza.
Tutt’altra situazione, invece, si verifica quando la fessura sulla parete è dovuta a un problema strutturale. Le crepe verticali nei muri sono senz’altro le più pericolose. A questo genere di problemi appartiene la crisi che si è aperta ad ogni livello (economico, geopolitico, spirituale) a causa del coronavirus. Si tratta di crepe troppo profonde e dolorose per essere ignorate. In riferimento ad esse, il nostro atteggiamento dovrebbe essere come quello di chi ha scorto alcune crepe nei muri o, peggio ancora, nelle strutture portanti della casa corre subito ai ripari, avendo la consapevolezza che da ogni difficoltà nasce una nuova possibilità. «C’è una crepa in ogni cosa, è così entra la luce» cantava l’indimenticabile poeta e folksinger Leonard Cohen. L’apocalisse su cui tante volte egli ha indugiato si scioglie in questo celebre verso della sua canzone “Anthem”. «C’è una crepa – egli spiegava – in ogni cosa che può mettere insieme oggetti fisici, oggetti materiali, costruzioni di qualsiasi tipo. Ma è proprio lì che la luce entra e permette la resurrezione, è lì che nasce il confronto con le cose che si rompono e il pentimento».
Dovremmo utilizzare il tempo non solo per mettere un po’ di stucco, ma dedicarci di più a contemplare ciò che, grazie a quelle fessure, è venuto alla luce ed è stato maggiormente illuminato. Le crepe provocate dal coronavirus hanno dimostrato la nostra fragilità, hanno smantellato i piedi di argilla delle nostre certezze, hanno soprattutto ridimensionato i deliri di onnipotenza coltivati in modo più o meno consapevole, costringendoci ad ammettere che non siamo padroni della nostra esistenza e dei nostri destini. La pandemia ha scavato nel nostro orgoglio, ha messo a nudo l’inconsistenza della nostra voglia di libertà incondizionata e della nostra sete di autonomia assoluta, ha mostrato che l’individualismo esasperato è deleterio per tutti, anche per chi lo professa.
Ora siamo più consapevoli che davvero nessuno si salva da solo. Abbiamo preso maggiormente coscienza che tutto è connesso e che l’uomo è un essere in relazione con Dio e con gli uomini. Abbiamo compreso che non basta diventare “soci” e riscoprire il valore della “società”. Ciò che è riconoscerci conoscerci fratelli e stabilire una convivenza familiare, una fraternità universale, una convivialità tra i popoli. In una stagione così drammatica, il Natale torna a ricordarci che esiste un altro modo di vivere e di relazionarsi. Quanto abbiamo vissuto rappresenta una crepa, un pertugio attraverso il quale penetra una luce.
Ripartire dalla meraviglia del Natale
Ogni vero inizio parte dalla meraviglia. L’inizio non è di tipo cronologico, non si conta a partire dal calendario, ma dal cambiamento del cuore. Questo stato d’animo non è solo l’aurora del sapere filosofico e della narrazione mitica, ma è anche l’apparizione e la scoperta di ciò ha valore per la vita. La meraviglia è una forza creatrice, genera un nuovo senso della vita. Il mondo inizia dalla meraviglia che Dio stesso prova contemplando l’opera che le sue mani hanno creato. Anche la storia della salvezza ha inizio dalla meraviglia di Abramo, chiamato a diventare padre di una moltitudine di popoli e dallo stupore di Maria di fronte all’evento dell’incarnazione del Verbo che l’angelo le annuncia.
Il Natale è la festa della meraviglia e ci insegna a meravigliarci. Il verbo greco usato dall’evangelista Luca è “thaumazo”, lo stesso richiamato da Aristotele per indicare l’origine della filosofia. I racconti dell’infanzia di Gesù sono una continua meraviglia. Il lungo trattenersi di Zaccaria nel tempio e il suo essere diventato muto è causa di meraviglia (ethaumazon) nel popolo (cfr. Lc 1,21). Stupore (ethaumasan) suscita anche l’accordo dei genitori di dare al bambino il nome di Giovanni (cfr. Lc 1,63). Il racconto dei pastori, che riferiscono quanto annunciato dagli angeli e da loro visto personalmente, suscita meraviglia (ethaumasan) negli ascoltatori (cfr. Lc 2,18). Nella presentazione di Gesù al tempio, Giuseppe e Maria si meravigliano (thaumazontes) di quanto detto da Simeone nei riguardi di Gesù (cfr. Lc 2,33). Significativa, poi, è la vicenda di Gesù che conversa con i dottori nel tempio di Gerusalemme. A tal proposito l’evangelista scrive: «Tutti quelli che lo udivano restavano meravigliati (eksistanto) della sua intelligenza e delle sue risposte. Al vederlo (Maria e Giuseppe) restano stupiti (exeplaghesan)» (Lc 2,47-48).
Che il Natale sia il tempo della meraviglia e dello stupore è convinzione anche della tradizione, secondo la quale la statuina del pastore Gelindo o Genesio si distingue da tutte le altre. Mentre gli altri pastori portano alla capanna delle cose, lui mostra unicamente il suo stupore e la sua meraviglia. Rimanendo immobile, fissa la stella sorpreso con le labbra socchiuse e le braccia elevate al cielo, e contempla il presepe pienamente assorto da quello spettacolo. Il Natale, infatti, è un evento superiore ad ogni attesa umana: Dio assume le sembianze di un bambino e si manifesta al mondo come uomo mostrando a tutti il suo amore, la sua benevolenza, la sua amabilità, la sua misericordia. La tradizione racconta che il pastore meravigliato, giunto davanti a Gesù con le mani vuote viene rimproverato dagli altri pastori. Ma la Madonna gli dice: «Non ascoltarli. Tu sei stato messo sulla terra per meravigliarti: hai compiuto la tua missione e avrai la tua ricompensa. Il mondo sarà meraviglioso, finché ci saranno persone come te, capaci di meravigliarsi».
La meraviglia di cui si parla in filosofia e nei racconti biblici non corrisponde all’esperienza di “Pinocchio nel paese dei balocchi” o di “Alice nel paese delle meraviglie”. Non è l’apparizione di un mondo fatuo e irreale, frutto solo di attese e di sogni che non si possono realizzare e che, di fatto, non si realizzeranno mai, anche se ardentemente desiderati. La meraviglia non è un miraggio che sfuma di fronte alla cruda realtà. Non è nemmeno un evento apportatore solo di gioia e di felicità.
La meraviglia come “thauma” contiene il senso drammatico e tragico delle vicende umane. Con questa parola si intende dire che la vita suscita uno stupore misto a paura, un fascino intriso di stordimento, una gioia carica di turbamento, una felicità pervasa da angoscia, un’esultanza che suscita anche ansia. La vita non è affatto una festa e un divertimento continuo. Accadono avvenimenti tristi, vicende incomprensibili, cambiamenti carichi di ambiguità. Tuttavia, anche nei loro meandri più oscuri, la luce penetra, come i raggi del sole nelle crepe dei muri e lo sguardo interiore riesce a cogliere l’armonia in ciò che sembra disordinato. Bisogna avere occhi più penetrati per vedere ciò che è nascosto.
Il mistero del Natale porta con sé la meraviglia vera: la bellezza del dono di sé. E questo provoca anche un certo dolore. L’attrazione che la bellezza suscita sconvolge l’io. Non senza disagio, si avverte di non poter bastare più a se stessi e di aver bisogno di altro, e quindi di dover uscire da sé. La bellezza di Cristo risplende non solo da Bambino a Natale, ma soprattutto quando è crocifisso. È la meraviglia per il dolore. Andando in fondo ad ogni dolore si intuisce la meraviglia dell’amore, coniugato in tante forme e in tanti modi: come affezione, tenerezza, predilezione, attenzione, vicinanza, perdono. Niente è perduto se tutto è perdonato. Niente è definitivamente scomparso se è sostenuto dall’amore.
L’amore sia il balsamo per tutte le ferite
A conferma di quanto detto mi piace riportare due testimonianze. La prima è Etty Hillesum, giovane ebrea olandese che il 7 settembre 1943 fu deportata ad Auschwitz dove morì, il 30 novembre 1943. Il suo Diario testimonia la scoperta di una purificazione e di un rinnovato amore alla vita passando attraverso un immenso dolore. Mentre era in campo di concentramento, aveva la chiara consapevolezza del destino che attendeva il suo popolo: «Bene, – ella scrive – io accetto questa nuova certezza: vogliono il nostro totale annientamento. Non darò più fastidio con le mie paure, non sarò amareggiata se altri non capiranno cos’è in gioco per noi ebrei. Continuo a lavorare con la stessa convinzione e trovo la vita ugualmente ricca di significato». Le pagine del Diario ripetutamente richiamano la celebrazione della vita: «Di minuto in minuto desideri, necessità, legami si staccano da me, sono pronta a tutto, a ogni luogo di questa terra nel quale Dio mi manderà. Sono pronta a ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella».
La seconda è testimonianza giovanile che viene da un liceo di Tricase. «Ci sono momenti – è il messaggio che mi è stato inviato – in cui le nostre azioni non bastano per superare gli ostacoli. Questo è proprio uno di quei momenti, in cui solo la speranza può guidarci, alimentata da quel desiderio e da quell’augurio che tutto questo, prima o poi, finirà. Inoltre questo periodo mi ha insegnato cos’è davvero l’essenziale: fare del bene e farsi volere bene, aiutare ed accettare di essere aiutati, amare ed essere amati, sapere di non essere soli, mai, perché c’è sempre una spalla su cui piangere, una persona con cui ridere, quella con cui poter sfogare le proprie rabbie e quella con cui poter essere sé stessi, in ogni momento. Questo periodo mi sta insegnando quanto sia importante trovare l’essenziale, perché è tutto ciò senza il quale non potremmo vivere. Ho capito ora più che mai quanto sia vera e meravigliosa la frase “Non si vede che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, del Piccolo Principe, di Antoine de Saint-Exupéry. Se ora dovessi spiegare, infatti, cos’è per me l’essenziale, direi che è quella felicità che si trova nelle piccole cose, speciali, preziose, importanti e uniche. Direi che la felicità è sempre con noi, nel presente e non nel futuro, sta solo a noi iniziare a vederla in tutti gli attimi della nostra vita».
Sintetizzo il senso della mia esortazione omiletica con queste parole: «Essere un balsamo per molte ferite». Così si conclude il Diario di Etty Hillesum e con questo proposito riprendiamo insieme il cammino nel nuovo anno.