Cari fratelli e sorelle, quest’anno viviamo la festa patronale in onore di sant’Ippazio con qualche limitazione nelle espressioni tradizionali. Mi sembra importante che non ci soffermiamo a ricordare le modalità che, negli anni scorsi, hanno caratterizzato la festa patronale rammaricandoci che quest’anno non potremo vivere in modo analogo. Comprendete bene che non dipende dalla nostra volontà, ma dalla particolare situazione che si è creata con la pandemia. Certo, dispiace di non poter esprimere la nostra devozione e venerazione a sant’Ippazio con le forme tipiche della pietà popolare. Non deve, però, venire meno la partecipazione spirituale, anzi deve crescere il desiderio di apprendere dal santo il modo di vivere questo particolare momento della crisi pandemica sul piano personale, sociale ed ecclesiale. Esprimo il mio personale apprezzamento per l’intervista del Sindaco, il dott. Giacomo Cazzato, e di altri rappresentanti del vostro paese per quanto hanno detto in una trasmissione andata in onda su TV2000, soprattutto per aver richiamato il valore spirituale e culturale della festa unitamente alle sue espressioni di pietà e tradizioni popolari.
Sant’Ippazio è il nostro protettore e intercessore, ma anche l’esempio e il modello della nostra vita cristiana. Nonostante i secoli che ci separano da lui, la sua testimonianza di fede, di speranza e di carità è ancora molto attuale. Ammaestrati dal suo esempio e dalla la Parola di Dio, confidiamo di testimoniare la vita buona del Vangelo perché torni a lode di Dio e a nostro vantaggio. «Dio infatti – scrive l’autore della Lettera agli Ebrei – non è ingiusto tanto da dimenticare il vostro lavoro e la carità che avete dimostrato verso il suo nome, con i servizi che avete reso e che tuttora rendete ai santi» (Eb 6,10). Consapevoli della misericordia che Dio ha verso di noi, riconosciamo che egli non solo non ci abbandona in questo particolare momento di difficoltà ma che, come abbiamo pregato con il salmo responsoriale, «si ricorda sempre della sua alleanza».
Un triplice dolore
Sappiamo bene che il flagello della pandemia, che ha colpito l’umanità intera, ha messo a nudo la nostra fragilità, ha provocato paura e morte e ha imposto isolamento e distanziamento sociale. La situazione sanitaria rimane ancora grave. Per questo dobbiamo comportarci con prudenza e attenzione e rafforzare la nostra fede e la nostra speranza in Dio che non abbandona mai nessuno e ascolta il grido di dolore del suo popolo.
Viviamo, infatti, un triplice dolore che si manifesta a livello fisico, sociale e spirituale. Il virus costituisce un grave pericolo per la nostra salute fisica. Anche nei nostri paesi, aumentano coloro che hanno contratto l’infezione e siamo tutti sotto la minaccia di poterla contrarre, con conseguenze negative sul piano personale e sociale. Alla sofferenza fisica, infatti, si aggiunge il dolore sociale i cui effetti negativi si manifestano nel campo del lavoro, della professione e della vita familiare. Il dolore che il virus arreca al corpo entra profondamente anche nell’anima. Cresce il sentimento di solitudine, di abbandono, di mancanza di futuro e di incertezza circa il destino personale e familiare. Conseguenze negative si manifestano a livello comunitario e all’interno delle dinamiche sociali di un paese, di un popolo, di una comunità civile.
Si allarga il fenomeno di coloro che non riescono a stare al passo con un modello che viene propagandato come l’unico degno di essere vissuto, ma che di fatto è precluso a molti a causa delle condizioni economiche, educative, di salute che negli anni sono andate peggiorando. Sono i nuovi poveri considerati lo scarto della società: i vinti, i rifiutati, gli emarginati. Il dolore sociale non deriva solo dalla mancanza di lavoro, ma dalla perdita di status e di senso associati al venir meno di fattori protettivi: l’utilità per la comunità, le buone relazioni familiari, l’appartenenza a un ambiente che si prende cura dei bisogni umani e spirituali. In questa situazione è facile cedere all’abuso dell’alcool, delle droghe come frutto dell’economia della manipolazione e dell’inganno.
Il dolore fisico e sociale può trasformarsi in dolore spirituale. Sentendosi abbandonati dagli uomini, la persona sperimenta la lontananza da Dio. Si offusca così la virtù della speranza. Già qualche anno fa, gli orientamenti pastorali della Conferenza episcopale italiana lamentavano che la speranza oggi è un “bene fragile e raro”. «Non è cosa facile, oggi, la speranza – affermavano i vescovi italiani. – Non ci aiuta il suo progressivo ridimensionamento: è offuscato se non addirittura scomparso nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa. Tale eclissi si manifesta a volte negli stessi ambienti ecclesiali, se è vero che a fatica si trovano le parole per parlare delle realtà ultime e della vita eterna».
La speranza cristiana antidoto ai mali moderni
Il vero antidoto ai mali attuali è la virtù della speranza. Per questo il primo compito è rinnovare la certezza che Dio non ci abbandona e non ci lascia mai soli nelle nostre difficoltà, anche quando tutto sembra crollare. Per questo, dobbiamo accogliere l’esortazione della prima lettura di questa liturgia in onore di sant’Ippazio: «Desideriamo soltanto – scrive l’autore della Lettera agi Ebrei – che ciascuno di voi dimostri il medesimo zelo perché la sua speranza abbia compimento sino alla fine, perché non diventiate pigri, ma piuttosto imitatori di coloro che, con la fede e la costanza, divengono eredi delle promesse» (Eb 6,11-12).
La speranza non è un sentimento o un’emozione, ma la sostanza stessa della natura umana. Si potrebbe dire che l’uomo è speranza. Senza la speranza svanisce la persona o almeno si limita a sopravvivere, avendo smarrito ormai il senso della vita. La cultura classica ricorda che la speranza è «il bene più grande tra gli uomini» e che «l’uomo migliore è quello che fa sempre affidamento sulla speranza». Per questo, il grande drammaturgo greco, Euripide, esorta: «Vivi di speranza e nutriti di speranza».
Talvolta riduciamo la speranza a una forza che ci permette semplicemente di tenere duro, alla capacità di fare buon viso a cattivo gioco, all’attitudine a resistere di fronte alle avversità della vita. In realtà, è Dio il fondamento della speranza. Nella sua enciclica Spe salvi, Papa Benedetto XVI ricorda che «la vera, grande speranza dell’uomo, che resiste nonostante tutte le delusioni, può essere solo Dio – il Dio che ci ha amati e ci ama tuttora “sino alla fine”, “fino al pieno compimento” (cfr. Gv 13,1 e 19,30)». In questo senso, la speranza diviene «un’àncora della nostra vita, sicura e salda, la quale penetra fin nell’interno del velo del santuario dove Gesù è entrato per noi come precursore» (Eb 6,19-20). L’immagine dell’àncora propone un chiaro riferimento al valore della stabilità, pur dentro i molteplici rischi di fluttuazione e di smarrimento.
La speranza del giusto è differente rispetto a quella dell’empio. Questa «è come pula portata dal vento, come schiuma leggera sospinta dalla tempesta, come fumo dal vento è dispersa, si dilegua come il ricordo dell’ospite di un solo giorno» (Sap 5,14). La speranza del giusto, invece, ancorata a Dio, roccia di salvezza, è fonte di coraggio di fronte alle avversità, genera la capacità di resilienza nelle situazioni di pericolo e di incertezza, è impulso alla solidarietà. In tal modo, la speranza costituisce un vero antidoto alle minacce del tempo presente.
La situazione pandemica che si protrae da mesi sta creando smarrimento, ansia, dubbi e, in alcuni casi, disperazione. Il virus è una forza capace di sciogliere i legami interpersonali e di indurre a rimanere nella propria sfera individuale, con la conseguente disgregazione della famiglia e della società. La speranza, invece, spinge all’incontro fraterno, a sentirci parte della stessa famiglia umana e cristiana, a cercare insieme le soluzioni più opportune per superare i problemi attuali.
Occorre sempre sperare anche quando sembra umanamente cosa sconsiderata e irragionevole. Soprattutto bisogna considerare che sperare è pregare e pregare annotava Wittgenstein nei suoi appunti del 1914-16 «è pensare al senso della vita». In modo ancora più radicale, Kierkegaard sottolineava che «pregare è respirare. Si vede, allora, quanto sia sciocco chiedersi un “perché”. Perché io respiro? Per non morire. Così con la preghiera».
Vi incoraggio, pertanto, cari fratelli e sorelle, a sperare, a pregare e a mantenere salda la vostra devozione a sant’Ippazio. Continuate a vivere come un paese unito sotto la protezione del vostro santo patrono. Il forte sentimento di attaccamento a lui vi sia di stimolo a seguire il suo esempio e a vivere nella speranza, nella fraternità e nella preghiera.
La preghiera è una finestra aperta sull’eternità. Chi spera, infatti, confida e si affida a Dio e da lui attende non solo la liberazione dai mali presenti, ma anche la gioia che non ha fine. «Allora – scrive sant’Agostino – conseguiremo grande e perfetta letizia, allora vi sarà gioia piena, dove non sarà più la speranza a sostenerci, ma la realtà stessa a saziarci. Tuttavia anche ora, prima che arrivi a noi questa realtà, prima che noi giungiamo alla realtà stessa, rallegriamoci nel Signore. Non reca infatti piccola gioia quella speranza a cui segue la realtà».