Celebrare la festa di san Vincenzo, nostro patrono, costituisce un momento significativo del nostro cammino ecclesiale e civile. Ci ritroviamo per questo appuntamento liturgico e rituale per attingere i valori e gli orientamenti utili anche per il nostro tempo.
Le fasi della pandemia
La festa di quest’anno cade nella seconda fase della pandemia da coronavirus. Nella prima fase siamo stati sopraffatti da un sentimento di sgomento e quasi di incredulità di fronte a un nemico oscuro e indecifrabile che è apparso in modo improvviso e ci ha aggredito alle spalle con la sua forza malefica. Abbiamo reagito, accettando di vivere chiusi nelle nostre case, nella speranza di debellare la pandemia e di poter ritornare quanto prima alla vita ordinaria.
La novità della situazione si è resa evidente già a partire dal linguaggio con il massiccio ingresso nella comunicazione di termini del tutto inconsueti nel vocabolario corrente. Le parole più usate nel 2020 sono state le seguenti: Covid-19, coronavirus, lockdown (al posto dell’italiano confinamento), indice Rt, tamponi rapidi, tamponi molecolari, test antigenico, test molecolare, immunità di gregge, misure restrittive, quarantena, autoisolamento, coprifuoco, chiusura, riapertura, distanziamento sociale, mascherina, lavaggio delle mani, virologo, epidemiologo, infettivologo, vaccino, zona gialla, arancione, rossa, bianca, didattica a distanza, variante inglese del virus.
In non pochi casi, l’informazione ha assunto fin dai primi giorni la forma di una retorica bellica con i quotidiani bollettini di guerra, il conteggio dei malati, dei morti e dei guariti, la narrazione degli eroismi dei medici e degli infermieri, eroi in prima linea, il coprifuoco serale, l’istituzione degli ospedali da campo, l’esercito per il trasporto dei cadaveri, la polizia e i carabinieri per strada a tutelare l’ordine pubblico e a contrastare gli inadempienti alle regole. Non è mancata una sorta di spettacolarizzazione con l’effetto di convincere la gente a restare in casa per evitare l’ulteriore diffondersi dei contagi.
Sul piano sanitario siamo stati travolti da uno tsunami che ha colto del tutto impreparati l’intero mondo medico e assistenziale: gli organismi nazionali e regionali, gli ospedali, le strutture sanitarie, il personale medico e infermieristico, le case di riposo e le residenze per anziani. Questa situazione di grande incertezza è stata contrassegnata da un notevole numero di decessi, soprattutto di persone anziane, morte per lo più senza nemmeno il conforto e la vicinanza dei propri familiari.
Il contraccolpo si è avvertito in modo determinante anche sul piano sociale. Con il distanziamento sociale sono cambiate le abitudini del vivere in comunità. Le manifestazioni pubbliche sono state ridotte al minino e tutte le forme di intrattenimento culturale, musicale, artistico e sportivo sono state annullate o riproposte, quando è stato possibile, solo in modo virtuale senza la partecipazione dal vivo delle persone. Non meno grave è stata la ricaduta sul piano economico per la forzata chiusura delle attività lavorative e la conseguente messa in cassa integrazione di molti operai, ad eccezione di coloro che hanno continuato a lavorare attraverso lo smart working. Una conseguenza di grande rilevanza sul piano educativo è stata la chiusura delle scuole e la necessità di continuare l’iter formativo dei ragazzi e dei giovani con le lezioni a distanza.
Dal punto di vita pastorale ci siamo trovati di fronte a una situazione del tutto inedita che ha cambiato non poco il modo di vivere delle comunità cristiane. Sono stati emanati decreti e notificazioni per indicare le norme a cui attenersi nello svolgimento dell’azione liturgica e pastorale. Le principali novità sono state le seguenti: la celebrazione delle liturgie senza la presenza dei fedeli; l’utilizzo di mascherine e l’igienizzazione delle mani da parte dei fedeli e dei sacerdoti; la limitazione di tutte le espressioni della pietà popolare per evitare gli assembramenti; la celebrazione dei sacramenti con la presenza di un numero limitato di persone; la differente impostazione della catechesi e degli incontri formativi; l’utilizzo dei social per comunicare con le persone; la sanificazione dei luoghi di culto e degli ambienti pastorali dopo ogni celebrazione liturgica, in particolar modo a seguito di qualche caso accertato di infezione da coronavirus.
Nel nostro territorio salentino, questa prima fase è stata vissuta con sentimenti di rassegnazione, ma anche con la convinzione di aver scampato il pericolo, visto che l’infezione si era propagata soprattutto al Nord. Ci siamo adeguati alle normative emanate dal governo senza molta convinzione, ma con una complessiva osservanza delle prescrizioni. Ci siamo sentiti quasi un’isola felice, graziati dalla buona sorte per non dover affrontare una crisi pandemica così invasiva, anche perché preoccupati per la scarsità e le carenze delle nostre strutture sanitarie.
Ci siamo illusi che, con uno sforzo comune e in un tempo relativamente breve, avremmo superato il pericolo e saremmo ritornati alla vita quotidiana, riprendendo i ritmi vissuti in precedenza. La spensieratezza dell’estate ci ha quasi convinti che il pericolo più grave fosse ormai alle nostre spalle. Ben presto, però, abbiamo compreso che la pandemia sarebbe durata più a lungo del previsto.
Quasi inavvertitamente siamo entrati nella seconda fase della pandemia, mentre già si prevede una terza ondata. Il clima è totalmente cambiato. Siamo passati da quello che sembrava una tempesta violenta, ma passeggera, alla constatazione di uno sconvolgimento che dura più a lungo di quanto avevamo previsto senza poter pronosticare il momento conclusivo del suo infuriare. È aumentata l’incertezza circa il futuro, mentre cerchiamo affannosamente di trovare le soluzioni più opportune sul piano sanitario, economico e sociale. In qualche caso, monta la rabbia e il risentimento mentre crescono le disuguaglianze tra le classi sociali e le diverse forme di povertà.
Invece di arrestarsi e rimanere localizzato solo in alcune zone dell’Italia, il virus si è diffuso in tutto il paese ed anche nel nostro Salento. Crescono i contagiati e i morti anche nei nostri piccoli paesi. La paura e il timore di venire a contatto con asintomatici mettono a dura prova la convivenza civile. Lo stato di eccezione che prevede la sospensione, almeno in parte, delle libertà civili in nome di una responsabilità verso la comunità lascia in sordina le omissioni e gli errori compiuti. Il dibattito pubblico, mettendo in evidenza le difficoltà del nostro sistema sanitario e l’incertezza circa i tempi e i modi per tornare alla vita normale, accresce il disagio e il senso di smarrimento.
Le immagini della pandemia
Parlando per immagini, a me sembra che siamo passati dalla tempesta alla difficoltà di trovare l’orientamento giusto per uscire dall’attuale situazione che assomiglia sempre più a un labirinto e al successivo camminare lungo un sentiero avvolto nella nebbia.
All’inizio della pandemia, Papa Francesco ha richiamato l’immagine evangelica della tempesta: «Come i discepoli del Vangelo – ha detto il Pontefice – siamo stati presi alla sprovvista da una tempesta inaspettata e furiosa. Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda». Queste parole del Pontefice, richiamando l’immagine evangelica della tempesta, da una parte hanno evidenziato la fragilità costitutiva della natura umana, dall’altra hanno messo in luce la solidarietà come nota essenziale dell’agire dell’uomo. L’invito fondamentale è stato quello di sentirsi tutti nella stessa barca e di remare nella stessa direzione.
In questa seconda fase della pandemia, le due immagini che la rappresentano sono quelle del labirinto e della nebbia. L’immagine del labirinto, come vuole la stessa etimologia del termine, dal latino labor – intus, rievoca il complesso cammino e l’estrema difficoltà di uscire da una situazione che sembra avvolgersi su se stessa. Non per nulla questa immagine assume un significato mitico, ermetico, filosofico e antropologico. Il labirinto, per antonomasia, era quello di cui parla il mito, un luogo leggendario abitato dal Minotauro, un mostro per metà uomo e per metà toro, al quale dovevano essere sacrificate giovani vittime. Chi entrava in esso, non aveva la possibilità di tornare indietro, perché nel labirinto si poteva andare solo avanti, con la speranza di trovare il percorso giusto. Nel suo significato ermetico, il labirinto costituisce un’allegoria della complessità del mondo, la cui intelligibilità non è afferrabile attraverso la sola ragione. Nella sua accezione filosofica, rappresenta il tentativo, sempre precario e irrisolto, di trovare una formula che apra la strada alla comprensione della verità nel suo valore ultimo e definitivo. Nel suo valore antropologico, rappresenta una sorta di “prigione della mente” dalla quale è difficile venire fuori.
Il simbolo del labirinto può essere utilizzato anche per descrivere la complessa situazione sanitaria, economica e sociale e la difficoltà di comporre le esigenze diverse e, talvolta, contrastanti, causate dalla pandemia. Ne richiamo alcune. Non sono state ancora chiarite le cause da cui si è originato il virus né il tempo in cui ha cominciato a diffondersi. Sono state fatte mille ipotesi, ma ad oggi non vi è nessuna certezza. La novità e la pericolosità del virus non è apparsa immediatamente evidente nemmeno agli organismi internazionali, tanto che l’Organizzazione mondiale della sanità ha atteso prima di definire “pandemia” quello che, per un certo lasso di tempo, aveva chiamato solo “epidemia”.
Se consideriamo come la pandemia è stata affrontata in Italia, si deve rilevare la polemica ancora in corso e che non accenna a placarsi sul mancato aggiornamento del piano pandemico come era stato richiesto dalle autorità competenti. Questa inadempienza ha creato non poco disorientamento e impreparazione soprattutto allo scoppio della pandemia con la conseguenza di non sapere come affrontarla. Ciò ha provocato un numero elevato di morti. Polemiche si sono generate dalla difficoltà di far giungere a destinazione i cosiddetti “ristori” stanziati dal governo, ma giunti troppo lentamente ai destinatari. Non meno fuorvianti sono state le diverse opinioni sul valore e la necessità di indossare le mascherine. Sotto gli occhi di tutti è poi la continua controversia tra lo Stato e le Regioni su diversi argomenti: la chiusura o apertura delle scuole con il conseguente insegnamento in presenza o a distanza (DAD) o proponendo la scelta facoltativa di rimanere a casa o di andare a scuola (DID); i criteri per definire i colori delle varie regioni e per regolare la chiusura o l’apertura delle diverse attività lavorative; l’incisivo ruolo dei social nel dibattito pubblico con la divulgazione di fake news, della tesi del complotto internazionale, della teoria negazionista della pandemia.
Ora la gente si è assuefatta a questo stato di cose. La regolazione ad intermittenza tra la chiusura e l’apertura determinata dalle differenze dei colori delle regioni, che da una parte ha smorzato il senso della festa, del ritrovarsi in comunità, dello stare insieme, dall’altra ha ingenerato rabbia, risentimento e voglia di trasgredire le norme per riappropriarsi di una normalità di vita sociale. La speranza è ora che tutto si possa risolvere sulla somministrazione del vaccino. Si fa affidamento su quest’arma per sconfiggere definitivamente il virus. Ma anche in questo settore non mancano le polemiche sui rifornimenti promessi, ma poi dilazionati nel tempo. Non meno problematico è l’attuazione del Recovery Plan per le incertezze sul piano politico a causa della crisi che è scoppiata tra le forze della maggioranza che sostengono il Governo.
Il problema da risolvere non riguarda solo l’urgenza di trovare la via per uscire dal labirinto, ma anche la necessità di come riprendere il cammino in una situazione attraversata da numerosi banchi di nebbia. È ingenuo pensare che la situazione possa cambiare rapidamente e che si possa tornare alla normalità. Lo sconquasso sanitario, sociale ed economico è stato così profondo che bisognerà camminare a vista perché le nubi non si diraderanno troppo facilmente.
La nebbia è un simbolo eloquente di una situazione ancora incerta e confusa di passaggio, mutamento e trasformazione poiché cambia incessantemente a seconda della sua densità. Rievoca l’insicurezza, l’instabilità, ciò che deve ancora assumere un aspetto concreto e reale. Anche nel nostro territorio camminare nella nebbia è un’esperienza non infrequente. Talvolta sembra di stare nella Pianura Padana o in altri paesi dove la nebbia è una realtà quotidiana. A livello fisico, la sensazione prevalente è un’umidità che penetra nelle ossa, particolarmente fastidiosa per chi soffre di reumatismi, accompagnata da quell’impressione di essere immersi dentro una sostanza difficile da identificare. Quando la densità della nebbia si fa più fitta mette in discussione tutti i punti fermi e ogni realtà diventa impercettibile. Ciò che fino a poco tempo prima era incontrovertibile ora diventa realtà indeterminata. Si brancola con l’assenza di punti di riferimento sufficientemente credibili. Basta poco a smarrirsi. Quegli attimi appaiono lunghissimi – quasi eterni – proprio in virtù dell’ambiguità della situazione.
Quando la nebbia si rivela più impenetrabile arriva ad intaccare l’anima. La fatica di vivere alle volte ci attanaglia, nelle forme dell’angoscia, del dubbio, della stanchezza spirituale, dell’apatia. Si concretizza il dubbio sulla realtà. Sorgono numerosi interrogativi e domande che finiscono con l’affollare la mente. Finché non si oltrepassa la nebbia, si rimane nell’incertezza e nella difficoltà di avanzare nel proprio cammino. Quando il tempo si schiarisce viene quasi da sorridere del dubbio atroce sulla credibilità dei nostri sensi provata durante l’attraversamento.
Pur in mezzo all’angoscia di una nebbia fitta che sembra aver inghiottito ciò che non riusciamo più a vedere, in realtà ogni cosa è rimasta al suo posto, con le stesse dimensioni, proporzioni e distanze. Il pittore Caspar David Friedrich nel suo celebre dipinto del 1819 “Viandante sul mare di nebbia” (Wanderer über dem Nebelmeer) rivive l’intensa emozione che si prova quando, dopo aver salito un sentiero di montagna nella nebbia e aver superato la fascia nuvolosa, improvvisamente si spalanca il cielo azzurro in alto e si vede la luce del sole riflettersi sul mare di nubi in basso svelando il panorama dei picchi dei monti. Come diceva Hölderlin «dove è il pericolo, cresce anche ciò che dà salvezza».
«La speranza migliore» (Eb 7,19)
La crisi pandemica, pertanto, deve essere considerata con un sano realismo. Si tratta di una “piaga mondiale” che va considerata con discernimento più che con l’emotività. Non dobbiamo sottovalutare il pericolo, ma non dobbiamo nemmeno sopravvalutare le difficoltà del tempo presente. Vi sono stati altri momenti di crisi a livello nazionale e internazionale: a livello planetario penso alle due guerre mondiali e, più recentemente, all’abbattimento delle torri gemelle e al fenomeno della contestazione studentesca; a livello nazionale, penso al periodo dello stragismo, agli anni di piombo, all’attacco al cuore dello Stato da parte delle “brigate rosse”, al duro confronto con il fenomeno mafioso.
La “crisi” è anche un’opportunità. Essa mette in discussione e invita a ripensare, con nuova creatività, soluzioni che si adattino al nuovo contesto storico. Se, infatti, si considera la storia dell’umanità si scopre che i più grandi progressi si sono avuti proprio nelle fasi di crisi. Secondo un pensiero attribuito a Einstein: «Tutte le crisi portano progressi. La creatività nasce dalle difficoltà, come il giorno nasce dalla notte oscura. È dalla crisi che scaturiscono inventiva, scoperte e grandi strategie, perché è nella crisi che emerge il meglio di ognuno».
Santa Teresa Benedetta della Croce invita il credente a pensare che «nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato».
San Vincenzo, nostro santo protettore, appartiene a questa categoria di persone. In un discorso su di lui sant’Agostino afferma che «nelle parole aveva la fiducia, nel martirio aveva la pazienza». Fiducia e pazienza sono le caratteristiche della speranza cristiana. La speranza nell’affrontare il martirio viene da Cristo. La forza per affrontare le difficoltà del tempo viene dalla convinzione di aver ricevuto la grazia, non solo di «credere in Cristo, ma anche di patire per lui» (Fil 1,29). Se è vero, come afferma sant’Ignazio di Antiochia, che «la fede è il principio e l’amore è la fine» è soprattutto vero, come scrive C. Peguy, che la speranza è la piccola bambina che trascina le due sorelle più grandi.
La pandemia ha posto non solo problemi di natura sanitaria, sociale ed economica, ma anche di natura antropologica ed esige il riferimento a valori che possano dare stabilità e novità al cammino dell’umanità. La speranza cristiana è il filo di Arianna per uscire dal labirinto ed è la fiaccola per camminare nella nebbia. In questo tempo non solo non dobbiamo farci rubare la speranza, ma dobbiamo risvegliare la speranza nei molti che l’hanno smarrita. La prima lettura descrive lo stato d’animo del credente che attesta di essere stato liberato da gravi pericoli dalla mano misericordiosa di Do (cfr. Sir 51,1-12). Anche l’apostolo Paolo riconosce che niente e nessuno «potrà mai separarci dall’amore di Dio, che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,39).
La speranza cristiana è fondata su Cristo. La sua presenza dà la certezza, anche in mezzo al buio, che non vi è nulla della nostra vita che non possa essere illuminato e trasformato, non vi è niente che non possa diventare un nuovo inizio. La speranza cristiana non è una semplice utopia per esorcizzare i momenti di crisi e di angoscia, ma è la promessa, già realizzata in Cristo, che c’è un futuro per tutti. Egli ci viene incontro oltre tutti i nostri fallimenti e spalanca un nuovo domani che fiorisce per l’intera umanità.
La speranza cristiana non è un semplice ottimismo, ma una virtù teologale. La “differenza cristiana” tra la speranza teologale e la speranza intesa come movimento della sensibilità verso un bene futuro molto arduo da raggiungere consiste nel fatto che la speranza teologale ha a che fare con Dio stesso, nel senso che proviene da lui e si orienta verso di lui come meta ultima del suo dinamismo. Tendere verso ciò che è arduo non vuol dire inseguire ciò che è semplicemente difficile, ma volgere lo sguardo a ciò che è alto, eminente, elevato che trova nel fine ultimo il suo appagamento. Tra la dimensione meramente naturale e quella più specificamente teologale c’è quindi un salto, nel senso di un compimento gratuito ed eccedente che realizza in modo inatteso quanto già insito nel cuore dell’uomo.
San Vincenzo ci insegna il valore di questa speranza che la Lettera agli Ebrei definisce «speranza migliore» (Eb 7,19). Essa realizza sia il superamento dell’escatologia secolare moderna, incentrata sul progetto utopico e sulla fiducia nel progresso, sia la mera rassegnazione postmoderna a ciò che è immediato e transitorio. La speranza teologale offre al mondo di oggi la capacità di riapprendere il senso del tempo a partire da un’attesa che è radicata nella “memoria resurrectionis” e chiama a vivere il presente come anticipazione del regno che viene. La speranza anticipa nel presente l’esperienza dell’eternità e caratterizza il contributo che il credente può offrire alla costruzione della città comune.
Con lo spirito intriso di coraggio, fiducia, perseveranza dobbiamo orientare il nostro impegno futuro. I problemi più gravi del nostro territorio sono lo spopolamento dei nostri paesi a causa delle migrazioni in nazioni straniere o degli spostamenti verso la città di Lecce, il preoccupante calo demografico, l’aumento della povertà e della precarietà, la disoccupazione e la mancanza di lavoro, l’educazione delle nuove generazioni. A ben vedere si tratta di temi connessi tra di loro, la cui soluzione richiede come condizione necessaria una convergenza di intenti, una condivisione collegiale e un comune impegno programmatico. Dobbiamo affrontare insieme, come Chiesa e società civile, questa situazione così difficile. Si tratta di un compito che deve coinvolgere non solo le istituzioni, le associazioni e i gruppi, ma tutta la comunità. È un cammino di popolo, non l’impegno di un’avanguardia di eletti. F. Dostoevskij, nei Fratelli Karamazov, afferma che «la salvezza verrà dal popolo». È quanto più volte ha ribadito anche Papa Francesco.
Rinnoviamo pertanto la nostra speranza e chiediamo a san Vincenzo di benedire questi nostri proponimenti e di aiutarci a portali a piena attuazione.