Cari consacrati e consacrate, nonostante siamo alle prese con la pandemia da coronavirus, abbiamo voluto celebrare ugualmente la XXV giornata della vita consacrata. Lo facciamo con la scrupolosa osservanza delle norme anti contagio, ma sempre con la gioia di andare incontro al Signore. La presentazione di Gesù al tempio, infatti, viene chiamata nell’Oriente cristiano “festa dell’incontro”. Si tratta dell’incontro tra l’attesa dell’uomo e la risposta di Dio, tra la promessa di bene seminata nella storia e il suo compimento.
Le giornate mondiali della vita consacrata sono state fortemente volute da san Giovanni Paolo II a partire dal 1997, dopo la promulgazione dell’esortazione apostolica postsinodale Vita consecrata, con le seguenti finalità: lodare e ringraziare il Signore per il grande dono della vita consacrata, che arricchisce ed allieta la comunità cristiana con la molteplicità dei suoi carismi; promuovere la conoscenza e la stima per la vita consacrata da parte dell’intero popolo di Dio; invitare le persone consacrate a celebrare congiuntamente e solennemente le meraviglie che il Signore ha operato in loro. La vita consacrata, infatti, «si pone nel cuore stesso della Chiesa come elemento decisivo per la sua missione, giacché “esprime l’intima natura della vocazione cristiana” e la tensione di tutta la Chiesa-sposa verso l’unione con l’unico Sposo».
La pandemia come esperienza di esilio e di deserto
La pandemia ci ha colti tutti di sorpresa. Tutto si è fermato all’improvviso. Ci siamo ritrovati soli e smarriti nelle nostre case, in un silenzio esterno che ha messo in evidenza, in breve tempo, la nostra fragilità e vulnerabilità. La denominazione Covid-19 serve non solo per indicare una sigla sanitaria, ma per dare un nome dell’angoscia che è dilagata in ogni parte del mondo. Un virus invisibile, ma deleterio e pericoloso ci ha ricondotti alla reale misura di noi stessi. È stato un trauma per tutti, un dramma che non ha fatto sconti a nessuno. A distanza di mesi, stiamo ancora vivendo una situazione inedita che provoca radicalmente le nostre comunità. Tutte le attività prima rimandate e poi inesorabilmente sospese sono state il segno che stava accadendo qualcosa di imprevisto e imprevedibile con cui fare i conti.
La pandemia è stata anche per la vita consacrata un’esperienza di esilio e di deserto. L’esilio, infatti, per Israele è stato il tempo di una generale rovina. Il popolo perdette tutto ciò che aveva motivato la sua fede e sostenuto la sua esistenza: la terra, il tempio, i re. La stessa identità di nazione fu disintegrata. Fu un’esperienza del nulla, del caos, come se Dio avesse rigettato il suo popolo per sempre (cfr. Lam 3,17-18; 43-45).
Molte comunità di vita consacrata hanno sperimentato il “tempo della tribolazione”, vivendo l’esperienza di quarantena, di isolamento e di estraniazione e condividendo con la società civile la condizione di sofferenza, di malattia, di dolore e di lutto. La situazione, che si protrae ormai da mesi, ha creato smarrimento, ansia, dubbi. Dietro i numeri apparentemente anonimi e freddi dei contagi e dei decessi vi sono persone, con i loro volti feriti e gli animi sfigurati, bisognose di un calore umano che, non sempre, è stato possibile elargire.
Il tormento del tempo presente si è abbattuto su molte comunità religiose della nostra chiesa di Ugento – S. Maria di Leuca, colpendo soprattutto le suore anziane. Non sono stati pochi i lutti. In questi mesi, alcuni istituti hanno dovuto sopportare la forza devastatrice del virus. Penso, in modo particolare, alla comunità delle suore Marcelline e alla loro attività nell’ospedale e nell’Hospice di Tricase. Encomiabili sono stati il loro esempio e la loro testimonianza di fede. Penso anche alle ristrettezze che molte altre comunità religiose hanno dovuto affrontare.
“Sepolte” nelle vostre case, care sorelle, avete celebrato le liturgie “a porte chiuse”, ma sempre aperte ad accogliere il Signore che passa attraverso tutte le barriere. Vi siete sentite interiormente svuotate dall’assenza di riti, di celebrazioni, di “strutture” comunitarie, come anfore vuote in ardente attesa dell’acqua per la vostra sete, umili vasi di creta, contenenti frammenti di un tesoro di incalcolabile valore: l’amore di Dio. La professione dei voti si è resa ancora più concreta, con il suo inevitabile strascico di difficoltà, fatiche, malattie, sofferenze.
Avete vissuto un’esperienza di deserto, un’avventura dolorosa e feconda. Il deserto, infatti è un luogo terribile dove si incontrano ostacoli, si sperimenta la fragilità della vita, si constata l’indigenza, si va incontro alla privazione e si scopre la necessità di camminare in un luogo inospitale. È il tempo in cui si sperimenta la fame, la sete, l’ammarezza, il malcontento, la mancanza di strutture, e si prova il desiderio di ritornare alla situazione precedente, alla sicurezza della terra d’Egitto (cfr. Nm 11,5-14,2). L’esperienza di spoliazione vi ha stordite e disorientate per l’improvvisa cancellazione di impegni, per il continuo rinvio a tempo indeterminato di scadenze programmate e magari preparate con un massimo di zelo.
Il deserto, però, è anche il tempo del confronto e della maturazione, il momento del prendere coscienza della propria fragilità e dei propri errori, il contesto nel quale si può perdere la speranza, ma si può anche compiere il passaggio necessario per raggiungere la libertà. Il deserto è sinonimo di prove e di rinnovamento, esperienza di dolore e di incontro, luogo nel quale si sperimenta la protezione divina. Si passa così dall’esperienza del limite alla gioia che proviene dal dono che Dio elargisce a piene mani. Anche la steppa è diventata un giardino e una fonte d’acqua ha fatto fiorire la terra arida.
Il deserto rappresenta la rinnovazione delle speranze perdute. Nel quotidiano cammino, aspro e tormentato, si è aperta una via di salvezza. La sosta è diventata un invito a rileggere insieme il periodo problematico per raccogliere i drammi, i travagli, e le fatiche, per cogliere tracce di vita e guardare al futuro con uno sguardo illuminato dalla buona notizia del Vangelo. La fatica del silenzio interiore ha fatto sorgere una nuova e invincibile speranza.
Mantenere salda la speranza
Simbolo di questa virtù teologale è il vecchio Simeone che, nonostante il passare del tempo, ha mantenuto viva l’attesa e, finalmente, ha avuto la gioia di vedere e stringere tra le braccia il Signore che aveva aspettato per tutta la vita. Anche il gesto di questa liturgia di tenere accesa la candela è segno di un’apertura di credito al futuro. Esprime la volontà di accogliere l’invito, più volte ripetuto della Lettera agli Ebrei, a mantenere «senza vacillare la professione della nostra speranza» (Eb 10,23). «Siamo infatti diventati partecipi di Cristo, a condizione di mantenere salda fino alla fine la fiducia che abbiamo avuto fin dall’inizio» (Eb 3,14).
La vita consacrata si è mostrata fragile e vulnerabile, ma è stata anche capace di vera umanità. L’assalto provocato dai sentimenti di paura e di angoscia ha reso possibile il risveglio di passioni positive: l’empatia, la compassione, la solidarietà, la disponibilità a mettersi a servizio di chi è nel bisogno, l’amore che porta a sacrificarsi generosamente e gratuitamente per il bene dell’altro, chiunque esso sia.
La forzata convivenza, imposta dalla pandemia, ha offerto una fotografia reale della vita consacrata: da una parte, essa è stata risucchiata dalle attività e dalle varie occupazioni, dall’altra ha offerto la profezia e lo stupore di donne e di uomini che mostrano davanti al mondo che l’esistenza vale solo se è condivisa e donata per amore. La gravità del coronavirus ha “imposto” ad ognuno l’attenzione all’altro. L’indicazione a mantenere le distanze per salvaguardare la salute degli altri si è coniugata con la ricerca di un nuovo modo di praticare la vita fraterna, nutrendola con la linfa di una umanità più vera e più piena, proprio perché più cristiana.
Nonostante le fatiche e i limiti imposti dal lockdown tante consacrate, consacrati e membri di istituti secolari, hanno continuato il loro lavoro: nella scuola, negli ospedali e nelle RSA, rischiando in prima persona. Non si sono fermate le mense per i poveri; le loro case sono rimaste aperte per la preghiera personale e l’adorazione eucaristica. Con lo scorrere dei giorni non è venuto meno l’impegno a farsi carico degli altri con attenzione delicata e gratuita, con sentita partecipazione, con il sostegno tangibile e con il perdono limpido e cordiale.
Si è fatta più concreta la vicinanza ai poveri. Il virus, infatti, ha messo in evidenza la scandalosa disuguaglianza tra le persone e i gruppi sociali, la disorganizzazione dei servizi sanitari, la vulnerabilità dell’economia globale, la fragilità delle più elementari relazioni umane e la povertà della condizione personale. Molte consacrate e consacrati sono stati in prima linea nella cura delle vittime della pandemia nelle loro case di cura, nei servizi sociali, nelle strutture di accoglienza.
Ora occorre coniugare l’atteggiamento di silenzio, di stupore e di preghiera con la necessità di riconquistare il valore della parola per sostenere la speranza e ritrovare l’audacia. Il recupero della parola e del suo valore testimoniale si fonda sulla forza silenziosa dell’invocazione e della supplica al Signore. Al centro della fede cristiana, infatti, c’è la Pasqua, annuncio di gioia che la sofferenza e la morte non sono l’ultima parola, ma sono trasfigurate dalla risurrezione di Gesù. Ecco perché questo è un tempo di speranza che apre all’attesa di una nuova primavera; un tempo nel quale mantenere salda la fede per dare a tutti ragione della speranza che è in noi (cfr. 1Pt 3,15-16).