Uniti nella Speranza

Coraggio, non abbiate paura (Mt 14,27)

Foto: Renzo Bussio_LaVoceEilTempo

Mons. Nosiglia celebra in memoria di Modesta e degli altri clochard morti di freddo

Quest’anno, cari amici, siamo qui, nel duomo di Torino, per celebrare il ricordo di Modesta che ha perso la sua vita a causa del freddo di una notte e dell’ impossibilità di ripararsi. Ricordiamo  anche altri due senza dimora morti in questo mese: Mostafa Hait Bella e Radu Chirinbuta. Sono tra le tante persone senza fissa dimora morte in questo periodo invernale tra l’indifferenza delle città in cui abitavano. A Torino, in queste settimane, abbiamo assistito alla diatriba su come trattare i senza dimora dimenticando che si tratta di persone che hanno gli stessi diritti come ogni altro cittadino. Io ringrazio molto la Comunità di san Egidio e le altre realtà che percorrono le strade della città per incontrare queste persone, offrendo loro qualcosa di cui hanno bisogno ma soprattutto avviando con ciascuno un rapporto di amicizia e affetto, aprendo il proprio cuore e riconoscendo in esse la dignità che va sempre rispettata e promossa.

Non si possono trattare queste persone con interventi che non tengano conto di tutto ciò. È dunque necessario oltrepassare il semplice assistenzialismo di circostanza e promuovere verso ciascuno di loro una sinergia di relazioni ricche di amicizia e di impegno permanente. Occorre avviare un percorso per un welfare di questo genere con ogni persona che ne è soggetto e destinatario in diverse tappe:

1-Anzitutto l’accoglienza. È il primo passo da compiere. Accogliere significa far spazio nel cuore, nelle proprie case, nel proprio tempo, al prossimo in difficoltà. Parte da un atteggiamento interiore che si traduce poi in fatti concreti. Accogliere senza aspettare che vengano a cercarci ma andare noi a cercare i poveri e chi sta peggio.

2-L’accompagnamento: dopo l’accoglienza si affianchino le persone passo dopo passo per conoscerle, familiarizzare con loro, avviare relazioni meno superficiali e permanenti nel tempo.

3- Il tutto in vista di un aiuto concreto che sfoci nel mondo del lavoro che risulta più consono ad ogni singola persona. Questo è senza dubbio il cuore del welfare di inclusione sociale. Bisogna dunque mettere in pratica il detto: “non basta dare il pesce da mangiare ogni giorno a chi ne ha bisogno ma bisogna insegnargli a pescare”. Il che significa accompagnare ogni singola persona a camminare a poco a poco sulle sue gambe.

4-Inoltre va applicato poi il principio della restituzione, nel senso di educare a mettersi in gioco per aiutare gratuitamente (vedi il volontariato sociale) il prossimo in difficoltà come fosse un dovere di rispondere a un prestito contratto che va dunque sanato

5-Infine è decisivo che una città come la nostra, che può contare su un esercito di persone impegnate e disponibili a mettersi a servizio di chi è debole e povero, si muova all’unisono, nel senso di attivare una rete e una agorà. Non ci si limiti, dunque, a fare ciascuno la propria parte in un ambiente che non sostiene e resta alla finestra ad osservare senza coinvolgersi. La rete aiuta l’inserimento dei senza fissa dimora, a pieno titolo nella vita comunitaria con diritti e doveri propri di ogni cittadino.

Il vangelo ci fa comprendere come tutto ciò è realizzabile se accogliamo la novità assoluta che Gesù ci ha donato. Egli, dopo aver insegnato ai suoi amici a rivolgersi a Dio con il nome di Padre, un nome che richiama la famiglia dove si genera la vita e si vive l’amore, ha mostrato in concreto che cosa significhi vivere una umanità nuova, sconvolgente per quei tempi e per tutti i tempi. Il vangelo di Marco ci racconta che mentre Gesù parlava alcuni vennero a dirgli: “Fuori c’è tua madre, ci sono i tuoi parenti che ti cercano e desiderano parlarti”. Gesù, guardando coloro che erano davanti a lui, poveri, storpi, ciechi e malati, ebrei e stranieri – persone che lo seguivano perché riponevano fede in Lui – esclamò: “Chi è mia madre, chi sono i miei fratelli e sorelle, chi i miei parenti?, Chiunque fa la volontà del Padre mio (cioè chiunque ascolta la Parola di Dio e la mette in pratica) costui è mia madre, mio  fratello e sorella, parente e amico.

Di quale nuova famiglia parla Gesù? Non di quella basata sul sangue e la carne soltanto, ma di quella fondata sul riferimento a Dio Padre di tutti e dunque su chi è nostro fratello e sorella amato dal Signore come suo figlio. La soluzione di tutti i problemi che assillano ogni persona viene dunque dal considerarsi e dall’essere figli e fratelli in una famiglia che ingloba quella naturale ma va oltre i suoi confini e si allarga a tutti, supera le barriere che umanamente sono insite nel pure importante “mio” e apre a un “noi” di condivisione che crea nuovi legami di amore, forti, indissolubili di amore e di eternità. Perché se i legami naturali sono di per se stessi temporali, quelli di cui parla Gesù sono senza confini di spazio e di tempo, sono eterni.

La tradizione di fraternità e solidarietà della nostra città e dei santi sociali può esserci maestra anche nell’affrontare con responsabilità questa questione. È’ legittimo e opportuno che ciascuno di noi, nelle varie responsabilità che gli competono, accetti di lasciarsi sollecitare da una presenza che è fondamentalmente una domanda. Ed è bene provare a costruire soluzioni che mettano in campo tutte le forze sane della città. Ma la soluzione non può essere trovata solo nelle strutture organizzative. Le persone più fragili hanno bisogno di essere accompagnate a maturare scelte, ad intravvedere quale sia il proprio bene e sentirsi parte della città e non osservati speciali. Occorre l’impegno comune per creare le condizioni necessarie perché questi nostri fratelli sappiano cogliere le opportunità che la nostra comunità mette a loro disposizione e, dall’altra, trovino la forza di una nuova speranza capace di mettere in campo le loro resilienze. Ogni volta che celebro l’Eucaristia penso: ecco dò ai fedeli la vita di Cristo, un pane condiviso e mi ricordo di quello che dice Paolo ai Corinti: “voi mangiate il corpo  di Cristo ma lo mangiate indegnamente perché non condividete poi il pane materiale con chi ha bisogno”. Allora mi chiedo: che cosa faccio io che dò il pane eucaristico per dare anche il pane del mio amore concreto, condividendo con i poveri tempo, fatica, sofferenza, beni spirituali e materiali di cui hanno bisogno? È una continua verifica e sfida che mi porto dentro. Non immaginate però la gioia che provo nel vedervi oggi qui tutti insieme. Una gioia che porto dentro e conservo come tesoro prezioso  per lungo tempo.

Auguro anche a voi di provare questa gioia che nasce dal dono di sé.