Uniti nella Speranza

Coraggio, non abbiate paura (Mt 14,27)

Messa del Crisma. Mons. Delpini: È entrato nel santuario

Messa del Crisma. Mons. Delpini: È entrato nel santuario

  1. Nell’intimità inaccessibile

 

Nell’intimità inaccessibile si è insinuato un principio di tristezza.

Intendo nell’intimità inaccessibile della Sposa del Verbo.

Intendo nell’intimità inaccessibile di ogni credente.

Intendo nell’intimità inaccessibile dei preti e dei diaconi.

L’intimità inaccessibile è quella stanza segreta alla quale nessuno può accedere, dopo il primo e il secondo velo, il Santo dei Santi.

La gran parte, infatti, si ferma prima di entrare: guardano la Chiesa e guardano i discepoli e guardano i preti da fuori, non varcano il primo velo: giudicano senza vedere, criticano senza discernere, ti fanno sentire un estraneo.

Così la Chiesa è considerata una istituzione invecchiata, affaticata, insignificante.

Così i credenti sono definiti da etichette esteriori come relitti di un passato antipatico, come pezzi da museo.

Così i preti sono ridotti a presenze incomprensibili: si guardano con curiosità più che con interesse, si pretende che prestino servizi, si sopportano come ripetitori di parole morte e prediche scontate.

Un certo numero entra attraverso la prima tenda. Celebrano i riti e portano doni e offerte praticando stanche abitudini.

Pensano la Chiesa, come custode di tradizioni e di pratiche devote.

Pensano se stessi come credenti, fedeli alle cose imparate fin da piccoli e alle preghierine da recitare ogni sera. Proiettano sui preti questa immagine di custodi del buon senso fuori moda e delle consuetudini così care al paese e alla memoria e dicono: guai se mancasse il prete! E intendono il prete che intendo io, il prete che offre il servizio che io mi aspetto.

Ma nessuno passa oltre la seconda tenda, nessuno entra nel Santo dei Santi, l’intimità è inaccessibile.

Ma proprio lì si è insinuato un principio di tristezza. Proprio lì, nell’intimità inaccessibile di tante persone e persino credenti e persino consacrati, la pandemia con le sue sospensioni, il tempo vuoto con le sue tentazioni hanno indotto a constatare che nel Santo dei Santi c’è, come nel tempio antico, la manna, ma è pane raffermo, la verga con il suo fiore appassito, le tavole con la durezza della pietra.

Nell’intimità della Chiesa ha attecchito pertanto una specie di imperativo di sopravvivenza, insieme con la constatazione di un declino desolante.

Nell’intimità dei credenti ha preso dimora una specie di scoraggiamento risentito.

Nell’intimità dei preti una specie di inavvicinabile solitudine: “nessuno mi capisce, nessuno mi aiuta, non c’è chi abbia per me la parola che aspetto”.

  1. Cristo entrò una volta per sempre…

Gli antichi sacrifici, come le pratiche moderne del religioso, hanno dimostrato la loro impotenza.

La ricerca di rimedi al principio di tristezza con doni e sacrifici, con distrazioni o ricerche di gratificazioni, con frenesia di lavoro o con la gelosa custodia di territori insindacabili del privato, si è rivelata un insieme di surrogati deludenti: “doni e sacrifici che non possono rendere perfetto nella sua coscienza colui che offre: si tratta soltanto di cibi, di bevande e di varie abluzioni, tutte prescrizioni carnali.

Cristo invece è venuto come sommo sacerdote di beni futuri … Egli entrò una volta per sempre nel santuario, ottenendo così una redenzione eterna” (Eb 8,9ss).

In virtù del proprio sangue Gesù è entrato nel santuario, cioè nella intimità inaccessibile e ha vinto il principio della tristezza: ha purificato la nostra coscienza dalle opere morte (Eb 9,14).

Ecco quello che avviene in questa Pasqua: Gesù entra e dimora nell’intimità di ciascuno, purifica la nostra coscienza e vi semina un principio di amore, gioia, pace: nella Pasqua dona il suo Spirito.

Perciò la Chiesa che accoglie Gesù nell’intimità irraggiungibile sperimenta la gioia invincibile. Così i credenti: dimorano presso di sé nella comunione trinitaria.

Per noi preti questa grazia è la consolazione necessaria. Abbiamo vissuto tempi tribolati: ma abbiamo continuato a consolare con le parole di Gesù. Io vi ammiro e vi ringrazio. Abbiamo celebrato tanti funerali, troppi funerali: ma abbiamo continuato ad annunciare il vangelo della risurrezione: io vi ringrazio e vorrei farvi sentire la mia prossimità e il mio incoraggiamento. Abbiamo attraversato come tutti momenti di smarrimento, di paura, forse anche di depressione: ma abbiamo continuato a tenere fisso lo sguardo su Gesù. Io vi ringrazio per la vostra testimonianza.

La celebrazione della Pasqua è l’occasione, la grazia nuova di aprire la nostra intimità alla gloria del Risorto, di accogliere il dono dello Spirito. Non lasciate che Gesù rimanga sulla porta a bussare. Oggi si compie la parola del profeta che avete ascoltato: Lo Spirito del Signore è sopra di me … mi ha mandato a proclamare l’anno di grazia del Signore (Lc 4,19).

Frutto della Pasqua è un anno di grazia del Signore: mentre siamo logorati dalle incertezze, mentre ci sentiamo tutti più poveri, mentre soffriamo di essere imprigionati dalla pandemia, mentre siamo incapaci di vedere il cammino da seguire, Gesù proclama l’anno di grazia del Signore.

Mi faccio eco di questa voce e di questa promessa: inizia con questa Pasqua un anno di grazia, se accogliamo Gesù nel santuario della nostra intimità.

Questo anno di grazia, questo tempo di intima consolazione, questa stagione che confidiamo sia per tutti una promettente primavera non è un ciclo naturale: non è che il tempo di grazia viene come viene il sole dopo la pioggia, la primavera dopo l’inverno, una sconfitta del virus dopo che siamo stati tanto duramente sconfitti per mesi.

Questo anno di grazia è dono, è rivelazione, e per noi, per la Chiesa, per i credenti, ma in particolare per noi consacrati è la responsabilità di essere testimoni.

  1. Le rivelazioni di cui siamo testimoni.

Con un’unica oblazione ha reso perfetti per sempre quelli che sono santificati (Eb 10,14).

Ora è tempo che il velo sia squarciato e risplenda davanti agli uomini l’opera compiuta da Cristo che è entrato nel santuario con il suo sangue. È entrato nel santuario della nostra coscienza e noi siamo diventati tempio di Dio e da questo luogo santo risplendono i segni dell’anno di grazia.

L’amabilità.

I tratti dell’umanità di Gesù, che è mite e umile di cuore, si riconoscono, si devono riconoscere in coloro che sono santificati. Potrà essere testimone dell’amore chi non cerca di rendersi amabile?

Potremo essere a servizio dell’attrattiva di Gesù che innalzato da terra attira tutti a sé (cfr Gv 12,32), se il nostro modo di fare è scostante, se il nostro linguaggio è sprezzante, se i nostri giudizi sono taglienti, se le nostre reazioni sono aggressive, maleducate, offensive?

Come sarà comprensibile l’annuncio della misericordia di Dio che ci ha perdonati, se non usiamo misericordia verso i fratelli e le sorelle, se non sappiamo perdonare, se non cerchiamo la riconciliazione, se salutiamo solo coloro che ci salutano e conserviamo risentimento verso chi ci ha fatto del male e fatto soffrire?

Più grandi sono le responsabilità, più grave è il dovere di rendersi amabili. Più grandi sono le responsabilità e più abituale la solitudine e quindi anche più rara e difficile la correzione fraterna.

Si finisce per abituarsi a quello che è istintivo, espressione spontanea, ma ingiustificabile, del proprio temperamento, senza percepire quanto sia insopportabile.

L’amabilità traduce la carità in uno stile, il tratto quotidiano del dono più grande (1Cor 12,31). Sarai amabile se sarai magnanimo, benevolo, disposto a tutto scusare, a tutto credere, a tutto sperare, a tutto sopportare (cfr 1Cor 13,4-7).

Parole come scintille nella stoppia.

Il cuore che arde suggerisce parole di Vangelo, come scintille nella stoppia.

Le parole della Chiesa, dei credenti, dei predicatori danno voce a questa potenza di salvezza che è entrata una volta per sempre nel santuario, nel cuore, e ha reso presente il roveto, lo Spirito di Dio, come una lingua di fuoco.

Basta quindi con le parole morte, le parole stanche, le parole tiepide, le parole insipide! Basta con le parole troppe, le parole scontate.

Il Vangelo a noi annunciato ci consegna la “spada” della Parola, quella spada a doppio taglio e penetrante fino a dividere l’anima dallo spirito … essa giudica i sentimenti e i pensieri del cuore (Eb 4,12). Come è successo che le nostre parole non lascino il segno? Perché non sono capaci di dividere dentro di noi tra fede e incredulità, tra verità e menzogna, tra amore e indifferenza, tra speranza e disperazione? Perché non sanno ferire il cuore e portarlo a conversione come il primo discorso di Pietro alle folle (At 2,37)?

Siamo incaricati di annunciare la testimonianza di Gesù che per le sue parole ha sofferto il duro supplizio, pronunciamo parole che sono costate la vita ai martiri, che costano tormenti ai perseguitati di ogni tempo: come è successo che suonino come parole scontate, innocue, noiose?

Basta con le parole aspre, con le parole amare, con le parole usate per ferire.

Siamo annunciatori della notizia buona, usiamo la parola per dare lode a Dio e benedire il Padre (cfr Gc 3,9-10): come possiamo con la stessa bocca far del male ai fratelli?

Viene il tempo per ritrovare le parole che vengono da quell’intimità segreta dove arde il fuoco dello   Spirito, da quella sapienza che viene dall’alto, da quella bellezza che allarga il cuore e gli orizzonti. Siamo chiamati a imparare l’arte e la passione per parole edificanti, incoraggianti, per parole audaci che testimoniano l’audacia, per parole buone che aiutino a essere buoni, per parole sante che siano di stimolo alla santità, per parole sapienti che manifestino il fascino del mistero in cui ci muoviamo e siamo, il mistero di Dio.

La maestria della coralità.

Forse la nostra orchestra sta ancora vivendo il tempo in cui si accordano gli strumenti. Ciascuno prova il suo suono, libera note sconnesse tanto per verificare il suono. Ne viene una impressione di confusione e di dissonanze, di suoni stridenti e di rumori maldestri. Non è un disastro: è il tempo per accordare gli strumenti.

Ma adesso viene il tempo per eseguire la sinfonia. La gente aspetta una musica che svegli il sentire all’entusiasmo, il pensare alla verità, il corpo alla danza.

L’orchestra invoca il maestro perché tutti gli strumenti contribuiscano all’esecuzione della musica necessaria per rendere desiderabile vivere e vivere insieme.

Viene il tempo in cui si invocano maestri che siano strumento dell’unico Maestro e che abbiano la pazienza di valorizzare ogni strumento e di contribuire all’esecuzione comune.

Le comunità cristiane, a tutti i livelli, cercano maestri per questa armonia. Non si cercano eroi solitari per imprese irripetibili, ma santi della coralità, artigiani di comunione, pazienti tessitori di rapporti fraterni, di scelte condivise, di quella disciplina del convergere, del consentire, del portare i pesi gli uni degli altri, per essere un cuore solo e un’anima sola.

Lo Spirito di Dio fa a ciascuno un dono particolare, per l’utilità comune. Coloro che mangiano lo stesso pane, il pane epiousios, diventano un solo corpo.

Non c’è altra via, a quanto pare, perché il mondo possa credere e credendo essere salvato.

Il Signore Gesù è presente in mezzo a noi per proclamare l’anno di grazia del Signore.

Me ne faccio eco, per dire che la missione di Gesù si compie ora: oggi si è compiuta questa Scrittura che avete ascoltato (Lc 4,21).

Affido questo annuncio a tutti voi, fratelli nel ministero, con immensa fiducia, come affido gli oli consacrati in questa messa crismale, perché io vi stimo e vi voglio bene.

Affido a voi, fratelli tanto amati e tanto necessari, tanto generosi e pronti al servizio fino al sacrificio, affido a voi la responsabilità di annunciare l’anno di grazia con parole per seminare luce e ardore, con oli consacrati che siano balsamo per le ferite dell’anima, che siano consolazione per i cuori afflitti, che siano unzione per atleti pronti alla lotta e per fratelli e sorelli pronti alla gioia di Pasqua.

Diamo quindi inizio all’anno di grazia: sia l’anno della amabilità, l’anno delle parole di Vangelo, l’anno per praticare la maestria della coralità.

Diamo inizio all’anno di grazia: sia l’anno della consolazione, della guarigione, della lieta fortezza che accetta la sfida di rendere amabile il futuro.