Uniti nella Speranza

Coraggio, non abbiate paura (Mt 14,27)

Messa crismale. Card. Semeraro: “Viene nell’olio della grazia e lo infonde come medicina”

Messa crismale. Card. Semeraro: “Viene nell’olio della grazia e lo infonde come medicina”

1. Ventidue anni fa, in questo medesimo giorno presiedetti per la prima volta la Messa Crismale. Fu nella Cattedrale di Oria, la Chiesa che solo cinque mesi prima avevo cominciato a servire da Vescovo. Oggi lo stesso rito lo celebro con voi, carissimi, ed è per me l’ultima volta, giacché cinque mesi fa (ancora una coincidenza temporale), attraverso la voce del Successore di Pietro il Signore mi ha chiesto di ricominciare il cammino, ma per aliam viam. Un po’ come i magi, che dopo avere offerto i loro doni al Bambino ripresero il cammino «per un’altra strada» (Mt 2,12), anch’io sto muovendo i primi passi in un nuovo, imprevisto servizio. Vedermi, allora, circondato dalla vostra preghiera e dal vostro affetto è un conforto e un sostegno. I primi passi di chi è ancora giovane, sono, infatti, ben diversi da quelli di chi, invece, è già avanti negli anni: se al primo potrebbe mancare l’esperienza, al secondo potrebbero mancare le forze; se il primo ha bisogno di pregare: «Fammi conoscere, Signore, le tue vie» (Sal 25,4), l’altro avverte, piuttosto, il bisogno di dirgli: «Tieni saldi i miei passi sulle tue vie e i miei piedi non vacilleranno» (Sal 17,5). A conclusione del suo vangelo, Giovanni riferisce la domanda di Pietro al Signore riguardo al discepolo amato: «Signore, che cosa sarà di lui?». È un po’ la tentazione che raggiunge anche me, riguardo a questa Chiesa amata, e anch’io risento nel cuore la voce di Gesù, che dice: «A te che importa? Tu seguimi» (Gv 21,21-22). Quante volte, carissimi, soprattutto a partire dalla Visita Pastorale, vi ho parlato di un ministero generativo! Sono diverse le «formule» che cercano di spiegare questo tipo di «generatività», ma io ho sempre preferito quella che vede la pienezza della paternità nella forza morale di lasciar andare. È la generatività che tutti, inclusi noi sacerdoti, siamo chiamati a vivere: quella pronta a lasciare andare ciò che si è fatto nascere, rinunciando alla pretesa (spesso ben mascherata) di controllarlo. Simile atteggiamento generativo risuona anche nelle parole di Hannah Arendt, quando diceva che «gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per cominciare» (Vita activa, Bompiani, Milano 2015, 182). Intendeva dire che tutte le realtà naturali cominciano per andare verso l’estinzione; soltanto la persona umana ha la capacità di invertire questa tendenza di morte: anche nelle situazioni più dolorose, anche nella stanchezza e nella fragilità, per l’uomo c’è sempre la speranza di ricominciare. La Arendt capovolgeva, così, la tesi di Heidegger, suo maestro ed amico. L’esistenza umana non è un cadere nella morte. Facendo leva sulla profezia di Isaia ella dirà con forza: un bambino è nato per noi (cf. Is 9,5). Qualsiasi finire può divenire per l’uomo un cominciare. Per chi crede nel Risorto, lo è la stessa vita terrena.

2. Nel contesto di tale «paternità» celebriamo quest’anno la nostra Messa Crismale. È un anno che, a motivo del Covid-19, ci vede ancora disorientati, turbati, inquieti. Esso, come ha scritto il Papa, somiglia una tempesta che «smaschera la nostra vulnerabilità e lascia scoperte quelle false e superflue sicurezze con cui abbiamo costruito le nostre agende, i nostri progetti, le nostre abitudini e priorità» (Lettera enciclica Fratelli Tutti, n. 32). In questa situazione, che pure ci avverte del «cambiamento di epoca» che stiamo vivendo, noi cristiani – certo in prima linea, ma pure consapevoli di non essere gli unici pellegrini nel mondo – e con la volontà di proporre a tutti «una forma di vita dal sapore di Vangelo» (Ibidem, n. 1), abbiamo il dovere di alimentare la speranza. Vi propongo, allora, di meditare, seppure brevemente, su un passo omiletico di cui è autore un monaco cisterciense vissuto nel medioevo. comincia col riprendere parole che appena domenica scorsa abbiamo ascoltato nella commemorazione dell’ingresso di Gesù a Gerusalemme: quelli che precedevano e quelli che seguivano Gesù, agitando rami di ulivo gridavano: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore». Questo autore commenta: «Oh, quale felice venuta! Viene colui il cui nome è “profumo [crisma] che si diffonde”. Viene nell’olio della grazia, per infonderlo come medicina. Viene nel nome del Padre come olio degli infermi; viene colui che è stato consacrato con olio di letizia, a preferenza dei suoi compagni, e che nondimeno ci ha resi partecipi della sua unzione donandoci il nome di cristiani» (cf. ADAMO DI PERSEIGNE, Sermo II. De partu B. Virginis: PL 211, 715-716). Vorrei, allora, collegare questo canto di lode a quella «pastorale di cura» che, come ho detto altre volte, vi lascio non più come progetto, ma piuttosto come mio testamento pastorale. Non è proprio la cura, d’altra parte, un qualcosa che questa impensabile pandemia ci sta facendo riscoprire? Il riconoscere, infatti, di essere vulnerabili può aiutarci a uscire dal nostro individualismo per accedere a una visione relazionale capace di recuperare il legame di collettiva responsabilità per la vita l’uno dell’altro. Si aprono così degli spiragli da cui torna a comparire fra noi la compassione: un sentimento che forse è radicato nel nostro patrimonio biologico, ma che, per crescere e vivere, ha in ogni caso bisogno di essere coltivato; soprattutto di essere recuperato nel suo significato originario del patire con, della condivisione fraterna e della cura. È la cura che apre alla salvezza e riconcilia gli opposti! Nel vangelo secondo Luca c’è una storia, su cui potremo meditare domani, venerdì santo. È il dialogo tra un ladrone anch’egli crocifisso e Gesù. Gli disse: «“Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno”. Gli rispose: “In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso”» (23,42-43). L’Innocente e il peccatore! Molto laicamente ma con profondità religiosa, un noto cantautore farà dire a quel ladrone: «io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho imparato l’amore» (F. DE ANDRÉ, Il testamento di Tito). Penso, allora, che vi sia davvero spazio per una pastorale di cura.

3. Pastorale di cura è anzitutto pastorale di «relazioni», ossia una pastorale che si inserisce negli ambiti di vita ed è capace di coglierne il fiorire e l’appassire, l’esultanza e le stanchezze, il canto e il silenzio. Pastorale di cura è quella che alla medicina estetica preferisce quella che allevia il dolore; che alla presunzione del guarire a tutti i costi, preferisce l’umiltà dell’avvicinarsi e la pazienza di chi attende sulla soglia. Pastorale di cura è la consapevole che, fra l’estrema unzione e la pretesa del miracolo, esiste uno spazio grande dove è possibile attivare la virtù sanante della preghiera – individuale e in comune –, del dialogo spirituale, dell’incontro sacramentale e caritativo con Cristo. Pastorale di cura è quella di chi sa che più capace di confortare è chi sa di essere egli stesso un ferito. Nella prima pagina di un libro che mi è stato donato per la festa di san Giuseppe è scritto che «la nostra ferita serve alla salute degli altri, non alla nostra» (F. ARMINIO, La cura dello sguardo, Giunti/Bompiani, Firenze-Milano 2020, 9). Vale per la nostra pastorale: «la debolezza personale del pastore d’anime non è una carenza, ma una qualificazione per la cura d’anime… Pertanto la comunità cristiana è una comunità cristiana sanante non perché le ferite sarebbero tutte curate e i dolori eliminati, bensì perché in essa tutte le ferite e debolezze diventano occasioni di una nuova crescita e porte che aprono nuove prospettive» (R. ZERFAS, Menschliche Seelsorge cit. da P.M. ZULEHNER, Teologia pastorale, 1, Queriniana, Brescia 1992, 93). Ce ne è d’esempio lo stesso Gesù, il quale «pur essendo Figlio, imparò l’obbedienza da ciò che patì e, reso perfetto, divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono» (Ebr 5,9-10).

4. L’infermità è parte integrante della condizione umana: non c’è nessuno che ne sia esente e per questo, quando è percepita e comunque sia percepita, lo è sempre come frattura dell’integrità personale. All’improvviso si ha la sensazione che il corpo stia scivolando via da sé e che si stia pian piano aprendo una fessura dalla quale s’inseriscono in noi la fragilità, la vulnerabilità, la finitezza, la paura. Eppure proprio la malattia e la fragilità può aprire un percorso di approfondimento, dove la cura pastorale riesce ad aiutare la consapevolezza di essere sempre accettati e accolti da Dio. Pastorale di cura è, di conseguenza, anche una pastorale che non segmenta la persona umana, ma l’assume nella sua integralità sicché il malato e il sofferente giungono a sperimentarsi non più frantumati, ma interi. Chi, infatti, si sa pienamente accettato da Dio, sa anche accettare meglio se stesso e gli altri; sa essere in pace con sé e con gli altri proprio perché si riconosce in comunione con Dio. A questa pastorale siamo chiamati soprattutto noi sacerdoti. Questa missione ci è stata conferita con la Sacra Ordinazione. «Siano insieme con noi fedeli dispensatori dei tuoi misteri, perché il tuo popolo sia rinnovato con il lavacro di rigenerazione e nutrito alla mensa del tuo altare; siano riconciliati i peccatori e i malati ricevano sollievo…», dice il Vescovo nella preghiera consacratoria. Questa missione ricordiamola fra poco nel rito di benedizione degli Oli, specialmente quello degli Infermi. Ci aiutino a ricordarla pure i giubilei sacerdotali, che quest’anno sono celebrati da mons. Carlino Panzeri, p. Giovanni Alberti c.p. e d. Gennaro Perucatti s.d.b., che celebrano quest’anno il giubileo cinquantennale mentre il venticinquesimo di ordinazione è ricordato d. Andrea Conocchia, d. Pino Continisio e d. Marek Zbigniew (cappellano per i fedeli di lingua polacca). Ed ora, quanti sono nel presbiterio diocesano si dispongano a rinnovare le promesse sacerdotali. Per tutti loro preghi la Chiesa di Albano e preghi anche per me.