Uniti nella Speranza

Coraggio, non abbiate paura (Mt 14,27)

Pasqua. Card. Betori: “la luce di Cristo è fuoco di carità, è verità di amore”

Pasqua. Card. Betori: “la luce di Cristo è fuoco di carità, è verità di amore”

Il ritorno dello Scoppio del Carro, sia pure senza la gente che gli si stringe attorno, ci induce a cercare di ricomporre nella nostra memoria il significato religioso di questo atto e il messaggio che vuole trasmettere alla città. La distanza fisica a cui la gente è stata tenuta oggi, a causa della perdurante pandemia, aiuta ad andare oltre lo spettacolo di fochi e di botti, per cogliere il senso del modo con cui da secoli Firenze celebra la Pasqua.

Dobbiamo per questo tornare alla Veglia che ieri abbiamo celebrato, perché lì è nato il fuoco da cui ha preso vita la luce del Cero pasquale, simbolo di Cristo, da cui oggi abbiamo tratto la fiamma che ha acceso la colombina, volata fino al Carro per accenderlo e illuminare di fochi il cielo della nostra città. Un percorso lungo, che nei suoi passi centrali è uguale in tutte le chiese del mondo, ma a cui noi abbiamo premesso un gesto e abbiamo aggiunto un seguito che sono invece tutti nostri, fiorentini.

Tutto nostro è che il fuoco acceso ieri sera a Firenze, all’inizio della Veglia Pasquale, non sia scaturito da una qualsiasi sorgente, ma dallo sfregamento delle pietre del Santo Sepolcro di Gerusalemme, tra noi dal medioevo gelosamente custodite. C’è un legame profondo tra il fuoco da noi acceso e giunto alfine al Carro e l’origine della nostra fede, quel sepolcro in cui era stato deposto il corpo di Gesù e che, come abbiamo ascoltato dalla pagina del Vangelo fu trovato vuoto il mattino di Pasqua, primo segno del Signore risorto: «Non abbiate paura! Voi cercate Gesù Nazareno, il crocifisso. È risorto, non è qui. Ecco il luogo dove l’avevano posto» (Mc 16,6).

Da quel luogo, che non racchiude più il corpo di un morto, ma da cui si ode il primo annuncio che egli è risorto, provengono le pietre da cui è scaturito per noi il fuoco nuovo della Pasqua. Poco fa nella nostra città non è esploso un qualsiasi fuoco, ma un fuoco che porta in sé, nella sua stessa origine materiale, il segno della risurrezione, il germe della vita nuova che Cristo è venuto a condividere, come Risorto, con tutti noi. Cosa significhi quel fuoco e la luce che ne è derivata lo esprimono le parole che ho pronunciate accendendo con il fuoco nuovo il Cero pasquale: «La luce di Cristo che risorge glorioso disperda le tenebre del cuore e dello spirito». Parole che accogliamo con gioia, soprattutto in un tempo come questo, in cui le sofferenze che la pandemia porta con sé gravano sui nostri cuori e rischiano di chiuderli alla speranza. Di speranza abbiamo invece bisogno per affrontare il presente e il futuro, come persone e come società. Gesù si propone a noi come la nostra speranza, la luce che può illuminare il cammino avanti a noi.

L’altra caratteristica fiorentina del tragitto del fuoco e della luce nella festa di Pasqua è che esso non si ferma, come in tutte le altre chiese nel mondo, nell’esile fiamma del Cero pasquale, ma da essa si propaga, con il volo della colombina, fino alla macchina di fuoco che attende fuori dalla chiesa, sulla piazza, per moltiplicarsi in un tripudio di luci e di fragori. È un modo per dire che la luce di Cristo non è cosa che possa restare nella chiesa, ma è realtà per sé stessa indirizzata alla vita delle persone e della convivenza sociale. Un tempo il Carro portava il fuoco nuovo in ogni casa, a illuminarla e animarne la vita; oggi si irradia dall’alto per rischiarare e avvolgere i tetti della città tutti insieme; uguale è il messaggio che viene diffuso.

Un appello a questa città perché riconosca nella vita di Gesù e nel suo Vangelo una sorgente incomparabile di significato e di orientamento di vita, un progetto di vita buona e un disegno di concordia civile e di pace universale. Gesù non è una questione religiosa, ma un’immagine di vita piena e un orizzonte compiuto di storia. Da lui, dalle sue parole, dalla sua esistenza donata scaturisce una strada certa di bontà per tutti. E così, accanto all’invito alla speranza, quanto abbiamo compiuto tra ieri sera e stamani costituisce un potente messaggio ispiratore sul come vivere la speranza, cioè nella fraternità e nella cura gli uni degli altri, così come ha fatto Gesù per noi. Sarebbe un gesto falso far risplendere la luce di Cristo nella nostra piazza, cioè nella nostra città, e vivere nella chiusura egoistica che non riconosce gli altri come fratelli.

Pasqua è sì festa consolante perché dice speranza, vittoria della vita sulla morte, ma è anche festa impegnativa, perché dice cammino nel sentirsi fratelli e nell’amare fino alla dimenticanza di sé. Guai se il distanziamento sociale, a cui la pandemia ci costringe, dovesse diventare preludio alla scomparsa dell’altro, del fratello dalla nostra vita. La luce di Cristo non è solo splendore di verità, ma è anche fuoco di carità, è verità di amore.

Una verità scomoda quella che propone Gesù, perché amare è soffrire: non ci può essere amore senza croce, come lui ci mostra. Ma è anche l’unica possibilità per l’umanità di uscire dalle secche di una cultura che sta soffocando ogni autentica aspirazione del cuore e della mente, chiedendo di assuefarci a modelli standardizzati, programmando le nostre scelte secondo algoritmi che funzionano in base al consenso. Quale sia il volto di una modernità regolata dal “mi piace” e mossa da basse passioni, senza eroismi, lo ha profetizzato Nieztsche, descrivendo “l’ultimo uomo”: «Un po’ di veleno ogni tanto: ciò rende gradevoli i sogni. E molto veleno alla fine per morire gradevolmente. […] Una vogliuzza per il giorno e una vogliuzza per la notte: salva restando la salute. “Noi abbiamo inventato la felicità” – dicono gli ultimi uomini e strizzano l’occhio» (Così parlò Zarathustra, Adelphi, 1976, pp. 11s.).

La cultura degli “ultimi uomini” è attorno a noi, rischia di intossicarci tutti; è una cultura narcotizzata, in grado di produrre solo desideri meschini e a basso costo, una cultura di morte prima ancora che la morte giunga, incapace poi di affrontarne il mistero. Abbiamo bisogno di illuminare la grande mistificazione che ci circonda e ritrovare una strada di verità, quella che risplende nel Crocifisso Risorto, colui nel quale dolore e amore non sono separati e la morte risorge nella vera vita.

Questa è la luce da cui ci vogliamo far abbagliare nel fuoco della Pasqua! Una scelta si impone – direbbe san Paolo – tra «lievito vecchio» e «pasta nuova, […] azzimi»: «infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato!» (1Cor 5,7). Una scelta si impone, se vogliamo dare significato a un rito, quello del Carro, che non può e non deve ridursi a un fenomeno di folklore, ma ha da essere il segno di identità di una città degna della sua storia e per questo aperta al Vangelo che ne ha illuminato tempi colmi di gloria.