Cari fratelli e sorelle, molto si è detto sul Natale di quest’anno rispetto a quello degli altri anni. Basta richiamare gli aggettivi che sono stati usati per verificare il modo di sentire comune della gente. C’è chi ha marcato soprattutto la novità: diverso, virtuale anomalo. C’è chi ha espresso il suo rammarico: blindato, solitario, triste. C’è infine chi ha salutato la differenza in modo positivo: sobrio, intimo, familiare, rilassante, raccolto, distensivo, riflessivo, consapevole.
Certo questo Natale ha il sapore di una festa più dimessa nelle manifestazioni esteriori, ma non nell’intensità del suo valore spirituale che tocca l’intimo dell’anima facendoci riscoprire il punto capitale della festa e i valori che sono simboleggiati nella nascita di Gesù e che danno più gioia alle nostre relazioni umane. D’altra parte, il cristiano che legge la storia alla luce del mistero di Cristo, non si abbatte nemmeno nei momenti più bui e oscuri dell’esistenza. Dal carcere di Tegel, Dietrich Bonhoeffer scrive una lettera ai genitori, due anni prima di essere impiccato: «Non dovete pensare che io mi lasci abbattere da questo Natale in solitudine. Esso prenderà per sempre un suo posto particolare tra quei Natali, ciascuno con una fisionomia diversa, che ho festeggiato altrove; negli anni che verranno voglio poter ripensare a questo giorno non con vergogna ma con un certo orgoglio. È l’unica cosa che nessuno può togliermi […] Non c’è bisogno che vi dica quanto sia forte la nostalgia che provo per la libertà e per voi tutti. Ma voi ci avete preparato per decenni feste di Natale tanto meravigliose che il loro ricordo riconoscente è abbastanza forte da illuminare anche questo Natale buio. È in tempi come questi che si dimostra veramente che cosa significhi possedere un passato e una eredità interiore che non dipendono dal mutare dei tempi e degli eventi … Guardando la cosa da un punto di vista cristiano, non può essere un problema particolare trascorrere un Natale nella cella di una prigione. Molti in questa casa celebreranno probabilmente un Natale più ricco di significato e più autentico di quanto non avvenga dove di questa festa non si conserva che il nome. Un prigioniero capisce meglio di chiunque altro che miseria, sofferenza, povertà, solitudine, mancanza d’aiuto e colpa hanno agli occhi di Dio un significato completamente diverso che nel giudizio degli uomini; che Dio si volge proprio verso coloro da cui gli uomini sono soliti distogliersi; che Cristo nacque in una stalla perché non aveva trovato posto nell’albergo; tutto questo per un prigioniero è veramente un lieto annuncio. Credendo questo, sa di essere inserito nella comunità dei cristiani che supera qualsiasi limite spaziale e temporale e le mura della prigione perdono la loro importanza»[1].
Il punto capitale del Natale è l’affermazione inaudita e paradossale che “Dio si vede”. Questo è lo specifico della fede cristiana: la rivelazione del volto invisibile e ineffabile di Dio: «Noi vedemmo la sua gloria, gloria come di unigenito dal Padre, pieno di grazia e di verità […]. Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,14. 18). Si vede non solo la persona di Dio, anche il suo smisurato suo amore: «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16).
Il problema non è se Dio esiste o non esiste, ma se si vede o non si vede. A Natale lo si vede in modo inaudito: non come un angelo, un essere spirituale, ma come un uomo. Non è uno “spider-man” o un “superman”, ma un vero uomo come tutti gli altri uomini con tutta la debolezza e fragilità di ogni uomo, eccetto il peccato. A Pasqua assume il volto del crocifisso-risorto.
Il Vangelo di Giovanni ci istruisce sui gradi di questa visione. Vi è innanzitutto il vedere fisico. Con gli occhi del corpo si vedono (blepein) i segni della presenza di Dio. Con gli occhi della mente si scoprono i significati spirituali contenuti nei segni (theorein). Con gli occhi della fede si comprende il nesso che esiste tra i misteri e finalmente si “vede il Signore” (eidein).
Questa esperienza di visione può esser intaccata e messa in discussione da alcune forme di riduzione del mistero. La riduzione intellettualistica passa dall’affermazione della realtà di Dio al pensiero su Dio. Uno sforzo utile sul piano filosofico, ma non su quello esistenziale. Dio non si può comprendere. Se lo comprendi non è Dio, diceva sant’Agostino. La visione è l’inizio e la direzione della riflessione. Si parte dalla storia e dall’incontro con lui, non dal pensiero su di lui. La riduzione sentimentale percepisce Dio solo con il sentimento facendo di lui un oggetto delle sensazioni e delle emozioni dell’uomo, che sono mutevoli e cangianti. E così anche Dio appare e scompare con il variare dei sentimenti umani. La riduzione religiosa riferisce ogni cosa al “divino” nella sua indeterminatezza, non alla realtà di un Dio personale. Cade così ogni possibilità di dialogo e di responsabilità. Il “divino” assorbe e ingloba. È un oceano in cui naufragare. La riduzione solidaristica, infine, indentifica Dio con la solidarietà nei riguardi dell’uomo. Ciò che conta è fare qualcosa per gli altri.
In realtà, ciò che conta è innanzitutto accogliere il dono che ci viene fatto. Prima bisogna lasciarsi amare da Dio, poi bisogna far rifluire l’amore ricevuto sugli altri. Dio ha sempre il primato. Lui «è amore» (1Gv, 4,8) ed è la sorgete dell’amore. L’amore, infatti, è «da Dio» (1Gv 4,7). La carità è un dono, non un’operazione. L’amore è prima di tutto discendente, poi ascendente e orizzontale. L’amore verso il prossimo è la risultanza dell’amore di Dio verso di noi. L’amore di Dio viene prima di ogni altro amore. L’azione in favore di poveri, è sempre una risposta all’amore di Dio che ci ha amati per primo. Ogni gesto di carità è in primo luogo rivolto a lui e attraverso di lui ai fratelli (cfr. Mt 25). Il volto del povero è rivelazione del volto di Dio, non un suo nascondimento.
A tal proposito, sant’Agostino spiega: «L’amore di Dio è il primo come comandamento, ma l’amore del prossimo è primo come attuazione pratica. Colui che ti dà il comando dell’amore in questi due precetti, non ti insegna prima l’amore del prossimo, poi quello di Dio, ma viceversa. Siccome però Dio tu non lo vedi ancora, amando il prossimo ti acquisti il merito di vederlo; amando il prossimo purifichi l’occhio per poter vedere Dio. […] Al Signore non siamo ancora arrivati, ma il prossimo l’abbiamo sempre con noi. Aiuta, dunque il prossimo con il quale cammini, per poter giungere a colui con il quale desideri rimanere»[2].
In Gesù, si può vedere Dio senza morire, anzi rinascendo alla vita. Si vede l’amore che salva e redime! L’amore che ci ama e ci spinge ad amare. Buon Natale, ossia buona visione!
[1] D. Bonhoeffer, Lettera 27 dicembre 1943, Resistenza e resa, Queriniana,Brescia 2002.
[2] Agostino, Trattati su Giovanni, 17,7-9.