Cari amici giornalisti, mi trovo costretto a rinunciare al nostro appuntamento abituale nella festa del vostro patrono, San Francesco di Sales, a causa della pandemia e a farvi giungere “a distanza” alcune mie riflessioni.
Il Covid-19, questo ospite inatteso che non conosce confini, stati, lingue, sovranità e che continua ad contagiare senza rispetto di nessuno. Un avversario globale, feroce ed invisibile, che ci ha attaccato di sorpresa mandando in crisi molte delle nostre certezze e mettendo a nudo tutte le nostre vulnerabilità.
Ma nel suo tremendo “magistero”, il Covid-19 ci sta anche mostrando che la salvezza o è collettiva o è impossibile e che o la libertà viene vissuta come solidarietà o è illusoria e scade a pura retorica. Potremmo dire che tutte le libertà sono venute al pettine della pandemia, anche la libertà di stampa e con essa quel bene comune e prezioso per la democrazia che è l’informazione.
In questo tempo, inquieto, particolare e inedito, in cui i confini tra le persone sono stati ampliati e al tempo stesso ridotti grazie alla tecnologia, proprio voi giornalisti siete chiamati ad esercitare la vostra professione come una nuova forma di prossimità.
Come sapete, Papa Francesco ha scelto le parole dell’apostolo Filippo, “Vieni e vedi” citate nel Vangelo di Giovanni (1, 43-46) come tema del 55° Messaggio per la Giornata delle Comunicazioni Sociali, che si celebrerà nel maggio 2021, il cui sottotitolo è “Comunicare incontrando le persone come e dove sono”. Queste parole dell’apostolo Filippo, sono centrali nel Vangelo: l’annuncio cristiano prima che di parole, è fatto di sguardi, testimonianze, esperienze, incontri, vicinanza, in una parola, di vita.
Il Papa cioè ha voluto sottolineare come la comunicazione sia soprattutto dinamicità e comporti un movimento continuo di relazione e apertura verso l’altro. C’è nel suo richiamo una sottolineatura importante sull’essenza stessa del comunicare. La strada è tracciata da quel “vieni e vedi” che, declinato nella professione giornalistica, ha una forza attrattiva che non si limita a una semplice informazione, data quasi con distacco e disinteresse verso il destinatario, ma esprime la condivisione di una proposta che spinge a una comprensione dell’altro nella sua originalità.
In questo senso l’incontro, che è alla base della stessa comunicazione, diventa pieno. Il tema scelto da papa Francesco, oltre a ribadire questo principio basilare, presenta anche un elemento di novità. L’incontro deve avvenire con “le persone come e dove sono”. Non conosciamo la verità se non ne facciamo esperienza, se non incontriamo le persone, se non partecipiamo delle loro gioie e dei loro dolori.
È la sfida che consegna a tutti noi una nuova opportunità di riflessione e di azione e a tutti voi il compito di disegnare una comunicazione che sia rispettosa e inclusiva. Siete chiamati cioè a svolgere un servizio importante. Parafrasando quello che san Paolo VI disse della politica, direi che anche il giornalismo è una forma alta di carità, perché permette alle persone di connettersi e rimanere unite. Le notizie che quotidianamente ci fornite, oltre a diffondere i dati del contagio, le paure e il dolore delle vittime e dei familiari, la necessità di limitazioni e prudenze, ci stanno facendo conoscere anche le tante testimonianze di vita e di speranza a cominciare da quelle dei medici e degli operatori sanitari verso i malati, i sofferenti e i bisognosi.
Questa Giornata offre quindi anche l’occasione per esprimere gratitudine e riconoscenza a voi che concretamente vi adoperate per informare, mettendo a disposizione tempo e professionalità, anche rischiando, in un contesto difficile. Anche grazie a voi si sono potute custodire e ampliare le relazioni sociali, rimanendo vicini, sia pure distanti, attraverso la rete dei media.
Dunque il Papa vi invita a partire, a guardare, ad ascoltare, a raccontare, a volgere il vostro sguardo alle persone, alle cose, agli avvenimenti: anche voi siete chiamati, nello specifico della vostra vocazione, a prendervi cura del prossimo. Voi potete, consentitemi di dire che voi dovete, contribuire con l’esercizio quotidiano della vostra attività a creare e a promuovere quella cultura della cura “per debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente” come ci ha ricordato Papa Francesco nel messaggio del 1° gennaio scorso per la Giornata Mondiale della Pace. E voi potete e dovete farlo riscoprendo quel filo prezioso che avete tra le mani e che si chiama parola.
Spesso siamo prede di una comunicazione narcisistica e ripiegata su sé stessa, che divide invece di riconciliare e questo non può non porre degli interrogativi e non può non chiamare a nuove responsabilità chi svolge il delicato compito di informare. I social hanno trasformato la società della comunicazione in società della conversazione con il rischio di essere solo intrattenimento. E invece sono il luogo dove si formano le nostre identità, specialmente quelle dei più giovani. La conversazione può costruire relazioni vere, belle, solide. Oppure nutrirsi di odio, del meccanismo amico-nemico, e quando questo accade non c’è una relazione vera e il rischio è di precipitare all’indietro convinti di stare andando avanti.
Il linguaggio è un soggetto gravemente malato, che occorre in qualche modo recuperare. Le parole sono state manomesse, non valgono più per quello che dovrebbero esprimere, ma spesso vengono piegate a un uso strumentale che di fatto ne ha snaturato la propria funzione. Per questa ragione esse non raccontano più ciò che siamo e pensiamo, non gettano più un ponte stabile ed efficace tre le persone e con le cose con cui entrano in relazione, ma restano dei gusci svuotati che non significano più nulla. Il filo della parola è sempre sul punto di spezzarsi. Assistiamo a continui abusi e distorsioni delle parole anche da parte di molti organi di informazione, alla continua banalizzazione del linguaggio, dei modi di esprimersi e della manipolazione messa in atto deliberatamente da diversi soggetti politici per sottrarre le parole alla loro missione di verità e al loro ruolo di comunicazione.
Vi è dunque un’etica della responsabilità nell’uso del linguaggio che deve essere ancora più intensa quando i giornalisti usano il filo della parola per raccontare l’umanesimo della fragilità. Non cedendo alla tentazione di “raccontare” per stereotipi, ma spendendosi nella fatica di cercare, di capire, illuminando le periferie della vita, spesso in penombra come quelle delle città e scoprendo le storie invisibili, spendendosi ogni giorno, sul campo, in quel “Vieni e vedi” al quale ci richiama Papa Francesco nel suo messaggio.
Perché oggi vi sono solitudini che implorano di essere abitate, ricerche di senso che chiedono di essere accompagnate, povertà interiori, buie periferie che cercano e domandano luce e algide distanze da ricolmare. Quante ferite aperte davanti a voi, a portata del nostro filo chiamato parola, della vostra attenzione e alla vostra cura di cronisti, per continuare quell’infinito “viaggio intorno all’uomo” che è il giornalismo secondo la definizione di un grande maestro scomparso di recente come Sergio Zavoli.
Certo, il filo con cui siete chiamati a cucire le storie non sempre è un filo colorato e leggero. Diceva il grande teologo francese Henri de Lubac che il dolore è il filo con cui è tessuta la stoffa della gioia. Il giornalismo non è chiamato a ricamare, all’arte del bello scrivere, ma anche con il filo del dolore siete chiamati a tessere la tela della dignità di ogni uomo e di ogni comunità, attraverso la costante ricerca della verità, con il filo del coraggio, della passione, dell’onestà intellettuale.
L’informazione che fino a ieri era correlata alla conoscenza degli eventi e al loro semplice manifestarsi, oggi è responsabile del loro esprimersi ed evolversi, in rapporto al modo in cui gli eventi vengono rappresentati. Ed è una responsabilità ancora più grande in un tempo in cui circola la creduta banalità che una società informatizzata sia, per ciò stesso, una società informata.
Oggi l’informazione, per la sua universalità e velocizzazione, condiziona le cose del mondo allo stesso modo, ormai, dell’economia. Su internet, lungo le nuove e prodigiose autostrade elettroniche, tra insidie e sicurezze, il futuro anzi il presente, sta giocando la sua partita più grande. Un sapere universale rischia di omologare il nostro destino. Ecco perché al giornalismo e in genere alla comunicazione spetta oggi il compito di fare chiarezza su tutto quanto, per suo merito e demerito, ci coinvolge, ci inquieta e, anziché unirci, potrebbe dividerci.
Diceva un celebre giornalista argentino, Horacio Verbitsky che “giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto”. Mi sembra una schietta ed efficace sintesi di quella che è l’essenza del giornalismo, che è una missione più che un mestiere. Molti giornalisti a causa della libertà e della ricerca della verità sono stati assassinati, ma penso anche ai tanti che lavorano in silenzio, con contratti precari, i cui nomi difficilmente saranno letti sulle pagine dei quotidiani “importanti”. Eppure è grazie a coloro che muovono quelle “penne”, che tessono contatti, raccontano storie, molto spesso intricate, che molti “ultimi” trovano voce, un volto.
Un buon giornalismo è quello che sollecita l’attenzione sulle ingiustizie e accompagna chi rivendica i propri diritti in solitudine. Il giornalismo che scrive ciò che vede è di servizio ai cittadini e non a servizio di qualcuno. Oggi più che mai c’è bisogno di una figura professionale che contribuisca a formare un’opinione profonda nelle persone, non è vero che la rete rende consci di ciò che succede. Un buon giornalista smonta le false verità e fa crescere uno spirito critico nel lettore, un buon giornalismo solleva la coltre con cui ogni potere tende a coprire e mostra cosa c’è sotto. Non bisogna dimenticare che, se anche tutti abbiamo la possibilità di vivere in diretta gli avvenimenti, non si può rinunciare ad un intermediario che possa spiegare la profondità di quello che viene detto.
Oggi più che mai e soprattutto nel nostro amato Sud, nella nostra amata Calabria, abbiamo bisogno di un giornalismo che nutra l’opinione pubblica di verità anche se non sempre sono piacevoli, anzi soprattutto quando non sono piacevoli. Abbiamo bisogno di un giornalismo che faccia ragionare e metta la classe dirigente nella condizione di valutare le priorità. Un giornalismo al servizio dei cittadini deve esercitare una pressione che induce a prendere decisioni, a tendere al meglio, a valutare molti aspetti di ogni singola questione. Bisogna raccontare con onestà ma anche con verità quello che succede e porre delle domande, essere anche inopportuni. Solo così il giornalista e il giornalismo hanno un ruolo. Dove non c’è il controllo democratico da parte di giornali, che sono i cani da guardia del potere, è chiaro che il potere non si comporta bene, perché il potere corre sempre il rischio di prendere pessime abitudini che fanno male alla democrazia e alle comunità che è chiamato a governare.
In questa missione dei giornalisti per raccontare la propria comunità e farsi sentinelle della giustizia, ci sono tre stelle polari che possono illuminarne il cammino e che furono indicate da Papa Francesco in un incontro con i vertici nazionali del vostro Ordine professionale. La prima è “amare la verità” che vuol dire non solo affermare, ma vivere la verità, testimoniarla con il proprio lavoro. La relazione è il cuore di ogni comunicazione. Questo è tanto più vero per chi della comunicazione fa il proprio mestiere. E nessuna relazione può reggersi e durare nel tempo se poggia sulla disonestà.
Il secondo richiamo è a “vivere con professionalità”. Non si tratta – secondo il Papa – di fermarsi al recinto della deontologia, ai doveri scritti nei codici, ma di non sottomettere la propria professione alle logiche degli interessi di parte, siano essi economici o politici. Compito del giornalismo, oserei dire la sua vocazione, è far crescere la dimensione sociale dell’uomo, favorire la costruzione di una vera cittadinanza. L’ultimo è quello a praticare un giornalismo che informa ma sempre rispettando la “dignità umana”: Un articolo viene pubblicato oggi e domani verrà sostituito da un altro, ma la vita di una persona ingiustamente diffamata può essere distrutta per sempre. La critica è legittima e dirò di più è: necessaria, così come la denuncia del male, ma questo deve sempre essere fatto rispettando l’altro e la sua vita.
Sia questo il vostro vademecum sulle strade di questa nostra terra, in cui vi esorto a farvi prossimo di tutti, ad abitarla per venire e vedere, per fare della vostra professione uno strumento di costruzione e di solidarietà. Fatevi pellegrini delle parole e compagni di strada degli uomini e delle donne di questo nostro tempo, per volgerlo ad essere un tempo di giustizia per tutti.